Ad 81 anni ci ha lasciato Stelvio Cipriani, prezioso artigiano del pentagramma

    Erano gli epici del cinema italiano, quando la folla si accalcava ai botteghini
    rimanendo incollata alle poltrone, fino allo scorrere dell’ultimo titolo di coda. Ma erano soprattutto gli anni in cui la musica, il mercato discografico, viveva il meglio della sua pregiata tradizione. In particolare, complice la radio, i temi musicali – le cosiddette colonne sonore – vivevano ben oltre il grande schermo traducendosi in fruttuosi ’33 giri’, da far girare in sottofondo nel quotidiano degli italiani.
    Erano gli anni di Maestri del calibro di Nino Rota, Rustichelli, Travajoli, Morricone, Ortolani, Piccione i quali, firmavano spesso anche gli arrangiamenti degli artisti più gettonati ai juke-box. Tra questi andò ad aggiungersi anche un giovanissimo Stelvio Cipriani il quale, raccontò in un’intervista, non fu ben accolto dal ‘clan’ dei suoi più rodati colleghi: “Ma chi è ‘sto Cipriani? Ha fatto solo un pezzo… Invece eccomi qui, con 3.000 composizioni depositate in Siae. Eppure – aggiunse il compositore amareggiato – mai ricevuta una telefonata dai colleghi. Mai un caffè. Peccato. Tanto più adesso, che il futuro della musica da film, purtroppo, riposa tutto al passato”.
    E aveva ragione il musicista, ucciso dalle conseguenze di una grave ischemia l’1 ottobre ad 81 anni (fatalità, poche settimane prima Morricone è stato festeggiato per i suoi 90 anni), a rivelare il suo disappunto.
    Nel corso della sua carriera infatti, Cipriani vanta la stesura di ben 300 colonne sonore per altrettanti film (“Scrivo semplicemente musica per film, e la musica per film deve raccogliere il gradimento di un pubblico più vasto possibile”, ripeteva)), alcuni divenuti poi dei veri e propri evergreen. Western, polizieschi, erotici, sigle tv: non c’è genere che non abbia assorbito le sue eclettiche capacità compositive.
    Come ogni artista che si rispetti, anche Stelvio ha il suo personale ‘cavallo di battaglia’: ‘Anonimo veneziano’, datato 1970.
    Una pellicola fortunatissima (basti pensare che superò al botteghino gli incassi di una pietra miliare tra i film romantici come ‘Love Story’), con Florinda Bolkan e Tony Musante, che segnava l’esordio alla regia di Enrico Maria Salerno.
    I temi musicali, perfettamente confezionati su misura rispetto alle immagini, ottennero l’anno dopo il Nastro d’argento per la miglior colonna sonora: sicuramente il premio più importante ricevuto dal compositore romano in mezzo secolo di carriera.
    A proposito di questa esperienza Cipriani confidò che i temi di ‘Anonimo’ li scrisse in due ore, senza nemmeno aver visto il film: si addormentò durante la proiezione, perché allora suonava fino a tarda ora nei night club!
    “Chiedo di rivederlo – raccontò il Maestro – niente. Allora mi porto via una foto di Florinda Bolkan. La studio. Poi vado a mangiare alla mensa della Cam: gnocchi. Mi concentro: moglie e marito che si reincontrano dopo un sacco di tempo. Il tempo… la clessidra… il metronomo… Ti tan tan ti ti…. Devi sempre rovistare nella tua memoria musicale: qualcosa uscirà. E’ Chopin. Il tema di Venezia che muore, l’ho scritto ispirandomi a lui”.
    Di lì la consacrazione e il raggiungimento, meritato, anche di un buon tenore di vita. Lui che veniva da una famiglia umile, che ricordava: “Mamma sarta, papà elettricista al Poligrafico. Lavorava solo lui in famiglia. E girava su una bicicletta con un motorino sotto. Io avevo una fisarmonichetta: il giorno dopo aver ascoltato le canzoni di Sanremo alla radio, le riproducevo uguali, senza sapere la musica. Non era normale, non avevo studiato. Ma la cosa passava inosservata.”
    In verità in quegli anni, così come per i suoi coetanei, l’interesse che accomunava tutti “era il pallone – prosegue – anzi la palla, il pallone era per chi giocava sul serio. All’oratorio. Facevo le elementari e parliamo del cuore di Roma, piazza Trilussa, via Garibaldi. Là c’era l’osteria del nonno, dove facevo i compiti. Quando arrivavano le 4, andavo al campetto dei preti. Si poteva giocare solo se la sera prima si era stati alla funzione: decideva Angelino il custode, che controllava chi sì e chi no. Ovvio che io di messe non ne mancavo una. Un giorno però Angelino dice che non si gioca, perché padre Borsetti è malato e non può suonare l’armonium. Accade qualcosa: senza pensarci, mi faccio avanti e dico: ‘Lo suono io l’organo’. Era il Dna: avevo inconsapevolmente memorizzato le posizioni delle mani del prete sulla tastiera e potevo riprodurle alla perfezione. Solo due accordi, non ero mica Mozart: piripì e parapà. Ma adesso so che era una musicalità naturale. E fu il primo gradino nella scala della mia vita. Qualche giorno dopo, quando padre Borsetti entra nel campetto e chiede: chi è che l’altro giorno ha suonato al posto mio? qualcuno risponde: ‘il nipote del sor Settimio’. E lui: ‘come hai fatto?’,’Non lo so’, risposi timidamente. E Borsetti incalzò: ‘La musica la conosci?’. ‘No’. Allora mi insegna il pentagramma e i primi rudimenti. E io imparo subito’. Un amore immediato per il quale, poco tempo dopo, ricorda ancora il compositore, “mio padre fa il grande passo. Senza dirmi niente, mi porta in via dei Greci 18: il conservatorio di Santa Cecilia. Gliel’aveva consigliato un collega che ci mandava il figlio, Sergio Perticaroli, futuro esimio concertista. Papà presenta la domanda, e io, pinpiripin pon pon, supero l’esame d’ammissione e mi ritrovo, in calzoni corti, nel mondo della formazione musicale. Mamma mi voleva ragioniere. Ma papà ha fatto sacrifici per inseguire il sogno. È stato come se la famiglia, che allora c’era davvero, m’avesse coltivato. Adesso non ci sono più quei rapporti padre-figlio e non c’è neanche la disponibilità a sacrificarsi da parte dei ragazzi”.
    Di lì per il giovanissimo Stelvio è un’escalation di progetti ed entusiasmi: “A 17 anni non giocavo più a palla in parrocchia, ma in piazzetta e davo un’occhiata alla finestra di Wanda, che sarebbe diventata mia moglie e la madre dei miei figli. Metto su un’orchestrina che funziona, col marchese Gianni Incisa da Camerana alla chitarra e un cantante che rifà Frank Sinatra spiccicato, repertorio gagliardo, molti ballabili. Facciamo le serate in un ristorante di Montesacro, dove viene a sentirci un impresario di Firenze. Ci propone un contratto di sei mesi sulle navi da crociera che da New York visitavano i Caraibi. Diecimila lire al giorno. Così mi sono ritrovato tra i grattacieli di Times Square, io che conoscevo solo le case a due piani di Trastevere. Te l’immagini? È un altro gradino della famosa scala”.
    Quindi le epiche notti dei night, come ‘Oliviero’, ‘l’84’, il ‘Pipistrello’, ‘Le Grotte del Piccione’: “Eravamo ‘I Principi’ e ci alternavamo con le orchestre di Peppino di Capri e Buscaglione. Avevamo delle belle divise rosse, sbarbati, tirati a lucido. Dopo un po’, però, ciascuno imboccò la sua strada: Camerana diventerà console. Io invece me ne vado a lavorare alla Cam, le edizioni musicali di Sorrisi e Canzoni, dove i grandi compositori passano a depositare le opere: Rota, Trovajoli, Umiliani, Ortolani, Piccioni, Morricone, Rustichelli. Al piano di sopra c’è Teddy Reno, che organizza il ‘Festival degli Sconosciuti’. Una mattina mi chiede di lavorare per lui: diecimila al giorno per selezionare i candidati. Li accompagno al pianoforte e scelgo i migliori. Vado a mensa con Teddy e Ennio Melis dell’Rca e gli dico di questa Pavone Rita da Torino, una ragazzina con un cesto di capelli rossi, uno scricciolo con un vocione grintoso che intonava ‘Ogni volta’ di Paul Anka. Reno mi fa: è bella? Insomma. Intonata? Mica tanto. Allora che ha? Canta come nessun’altra. E non imita Mina”.
    Tanto basta e, come pianista personale della nuova voce-prodigio, Cipriani parte per una tournée americana: “Ho solo 23 anni e dirigo delle orchestre da 80 elementi. Se non c’ero io, Rita non cantava. Per tre anni siamo stati inseparabili. Un altro gradino della scala”.
    Quando quest’inebriante esperienza giunge al termine, Stelvio sente che per coronare il suo percorso deve poter dar spazio alla sua capacità compositiva: “Mi parcheggio alla Ricordi e ricomincio ad accompagnare i provinati, come si faceva al tempo. Non che mi entusiasmasse, ma uno dopo l’altro mi si presentano Lucio Battisti, Amedeo Minghi e Mino Reitano. Lucio non mi fa una grande impressione: un tipo robustello, simpatico, ma le sue canzoni non mi piacciono. Forse perché in quel periodo sono amareggiato: dopo aver girato il mondo, rieccomi con gli sconosciuti. Comunque i pezzi di Lucio piacciono al figlio di Mariano Rapetti, il mio datore di lavoro: si chiama Giulio e presto diventerà Mogol. Finalmente – racconta ancora nella sua biografia – mi si presenta un attore, Tomas Milian, che deve interpretare delle canzoni per un film. Un tipo timido, bello e silenzioso. Lavoriamo per qualche giorno, senza scambiare una parola. A cose fatte, Tomas m’interpella: ‘Maestro, le posso chiedere una cosa? Lei ha mai composto un deguello?”.
    Realizzato che l’attore cubano intende dire ‘un duello’, Stelvio apprende che le note vanno messe in fila in appena 24 ore: ormai il film (Bounty Killer, di Eugenio Martin), è nella fase finale del montaggio, a Madrid. Entusiasta Cipriani si getta anima e cuore nella sfida: “Finalmente suono la mia musica! La vedo scorrere insieme alle immagini, come quella di Trovajoli. Anche io sono un compositore”… era i 1967, l’inizio di un’avventura per lui poi giunta fino alle soglie del terzo Millennio.
    Da sottolineare anche la grande considerazione ricevuta dalla Santa Sede, per la quale Stelvio Cipriani ha realizzato il musical ‘Maria di Nazareth, una storia che continua’, e il ‘Tema di Karol’, che ha avuto più volte l’opportunità di eseguire davanti a papa Giovanni Paolo II.
    Max Tamanti