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Afroamericano ucciso: scontri a Minneapolis, un morto

Sono state due notte di scontri e di proteste quelle di Minneapolis, la città del Minnesota dove, la sera del 25 maggio, il quarantenne afroamericano George Floyd è morto. Poco prima di morire Floyd era stato fermato dalla polizia. Era alla guida di un Suv, forse alterato da alcol e droghe. Uno degli agenti lo sbatte sull’asfalto con la pancia a terra per ammanettarlo. Poi quel video che ha fatto il giro del mondo, girato da una passante incredula. Un agente bianco preme il ginocchio sul collo dell’afroamericano per alcuni minuti. “Non posso respirare”, urla la vittima inerme. Poco dopo arrivano i soccorsi, ma ormai è tardi, Floyd è morto. Un episodio che ricorda la vicenda di Eric Garner, anche lui afroamericano, soffocato da un poliziotto nel 2014 su un marciapiede di New York.

Le due sere successive Minneapolis insorge. Nell’aria torna il sapore acre e infame del razzismo. Essere nero non può essere una “sentenza di morte” negli Stati Uniti, dice il sindaco della città, Jacob Frey. Tante persone scendono in piazza. Ci sono gli afroamericani della comunità di Minneapolis, ma anche tanti bianchi. La sera dopo la vicenda i manifestanti sfilano dal luogo dove Floyd è morto fino al terzo distretto di polizia locale. Gli slogan sono “Giustizia” e “Basta linciarci” al grido di “Black lives matter”, le vite nere contano, il movimento afroamericano impegnato nella lotta al razzismo.

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La sera del 27 maggio l’odio cresce. Minneapolis diventa teatro di una guerriglia urbana. Da una parte la polizia in tenuta antisommossa, dall’altra chi è stufo della giustizia ordinaria. Non basta a tanti manifestanti il licenziamento dei quattro poliziotti coinvolti. È stata riaperta una ferita lunga quanto la storia degli Stati Uniti. Negli scontri viene ucciso un uomo in circostanze ancora da verificare, ma non dalla polizia. Forse è un saccheggiatore ucciso a colpi d’arma da fuoco dal proprietario di un negozio, riferiscono diversi media americani.

 

Il governatore del Minnesota, Tim Walz, la descrive come “una situazione estremamente pericolosa” e “invita i dimostranti, per la sicurezza di tutti, a lasciare la zona”. Il presidente Usa Donald Trump prova a spegnere l’incendio: “Su mia richiesta, l’Fbi e il Dipartimento di giustizia stanno già indagando sulla tristissima e tragica morte in Minnesota di George Floyd”. Ma gli scontri hanno ormai varcato i confini dello Stato. Si manifesta a Memphis, in Tennessee e a Los Angeles, in California, dove è ancora caldo il ricordo delle rivolte del ’92.

A Minneapolis i manifestanti sfilano fino alla casa del poliziotto del video, Derek Chauvin, il responsabile dell’uccisione di Floyd. Una vicenda che apre due questioni: la prima, atavica, del razzismo nel paese ‘simbolo’ della democrazia. In particolare nel mondo che ruota intorno a chi i cittadini dovrebbe proteggerli, la polizia. Il secondo è un problema di nuova generazione, ovvero chiedersi se il ‘linciaggio’ sotto casa del poliziotto coinvolto, il cui volto ha fatto il giro nel mondo, è la giustizia che ci aspetta nel futuro. O forse c’è chi è saturo di una giustizia che guarda ancora il colore della pelle.

Mario Bonito