Home POLITICA ECONOMIA Aids. Iardino: “Servirebbe un coming out collettivo”

Aids. Iardino: “Servirebbe un coming out collettivo”

“Questa è l’ultima intervista che darò su questo tema. Perché sono passati 30 anni, perché sto lavorando per cambiare anche l’approccio culturale all’Hiv. Non è che le associazioni siano contente di questo, e neanche tanto i clinici, perché sono legati a un modus operandi diverso, che però andava bene a mio avviso fino a un decennio fa. Ora, se vogliamo fare veramente del bene, dobbiamo cambiare. Credo serva una pausa di riflessione su come comunicare meglio sul tema delle malattie infettive. Siamo malati cronici. Uniamo le nostre voci a quelle degli altri malati cronici, quindi. Facciamo una battaglia su un’agenda condivisa, contro tutte quelle resistenze e quei muri che da soli singolarmente non si riuscirà ad abbattere”. E’ la riflessione di Rosaria Iardino, oggi presidente della Fondazione ‘The Bridge’, storica attivista per i diritti delle persone con Hiv.  

In occasione della Giornata mondiale contro l’Aids, spiega che “l’ultimo miglio che le persone con Hiv devono fare è quello dello stigma. Però deve anche un po’ partire da loro. Nelle istituzioni si sta facendo tanto. E’ la società” ora l’anello su cui lavorare, “e nella società dobbiamo fare ognuno la propria parte. La ragione forte che mi spinge a dire questo è che io ho la convinzione che, se noi siamo i primi a toglierci dallo stigma, forse aiutiamo un processo che in questo momento è un po’ fermo”. Oggi, argomenta Iardino, “i farmaci ci sono, le cure ci sono, si invecchia, la riduzione della discriminazione sul posto di lavoro è comunque un processo avviato. E noi abbiamo tanti punti in comune con chi è affetto da altre patologie. Spesso neanche chi ha avuto il cancro torna al posto di lavoro e glielo ridanno” come prima. “Per cui dobbiamo fare delle alleanze con le persone che hanno altre patologie e che subiscono come noi questa discriminazione nell’ambiente lavorativo e anche un po’ sociale. Parto dal presupposto che questo ultimo miglio dobbiamo farlo insieme. Dobbiamo ripartire da noi e dobbiamo farlo insieme agli altri”.  

Un altro esempio: “Oggi vediamo aumentare i fondi assicurativi per la sanità, abbiamo un servizio sanitario che offre, e infatti nessun paziente con Hiv o altre patologie è senza cura, ma se fuori dalla tua malattia hai da fare altri esami, purtroppo la pandemia lo sta dimostrando: o paghi o attendi. E se uno dice ‘voglio un’assicurazione sanitaria’, non te la fanno. Non la fanno a me ma neanche al malato di cancro, al malato di artrite reumatoide e così via. Uniamo le voci, allora. Purtroppo si sta disegnando una società che non è accogliente per le persone che hanno malattie croniche. Bisogna fare un passo avanti. Siamo malati cronici, sono cambiati i termini della nostra battaglia”. 

Insieme contro lo stigma, appello ai giovani  

Nel 2021, assicura Iardino, “c’è ancora stigma nei confronti delle persone con Hiv. Resiste nella società, anche in una fetta degli operatori sanitari. Lo Stato ha provato a mettere tutte le barriere per impedire discriminazioni. Il problema vero è nella cultura della società e quella la puoi correggere solo con il ‘coming out’ delle persone con Hiv. Ecco, ci vorrebbe un coming out collettivo da parte di tutti: di politici, professori, gente comune, professionisti. E sono convinta che avremmo dalla nostra parte anche i giovani, giovani impegnati come i ragazzi del movimento nato per salvare il mondo” dai cambiamenti climatici, il popolo di Greta.  

La storica attivista spiega all’Adnkronos Salute la sua idea: “Se ingaggiamo questo movimento giovanile e lanciamo l’iniziativa di un coming out per uscire dallo stigma, sono convinta che saremmo inondati di ragazzi che farebbero anche loro coming out, anche se l’Hiv non ce l’hanno, per fare scudo. E sarebbe stupendo – dice – Di fronte a questo gesto collettivo, io mi aspetto che moltissima parte della società dica: vabbè, e quindi? E questa sarebbe una vittoria. E mi aspetto che l’altra parte di società, quella che ha un pregiudizio legato alla modalità di trasmissione di questa malattia, che è per via sessuale ed ematica, rimanga schiacciata”.  

Oggi, dunque, c’è ancora bisogno di un gesto eclatante, come quello che 30 anni fa ha visto come protagonista proprio la Iardino? Era il dicembre del 1991. Allora, sotto una pioggia di flash, l’immunologo Fernando Aiuti, pioniere della ricerca e della lotta contro l’Aids, baciava sulle labbra una giovane Hiv-positiva. Quella foto passò alla storia come uno dei messaggi più forti e riusciti contro lo stigma. “Oggi forse servirebbero altri gesti eclatanti – ragiona Iardino – Gesti per rendere consapevoli le persone del fatto che ci sono gli strumenti per abbattere il rischio Hiv”, terapie che rendono il virus non rilevabile e quindi non trasmissibile, strategie per il sesso sicuro. “Non so se qualche ministro sarebbe disposto a scendere in campo per questo – sorride – Sarebbe carino”. Per il resto, conclude, “il Covid ha stravolto tutto, anche il concetto dell’essere infettivi. Il fatto che Sars-CoV-2 si trasmetta parlando ha fatto superare qualsiasi pregiudizio rispetto ad altre patologie infettive. Per cui il ragionamento diventa: la trasmissione sessuale non è niente al confronto, si può evitare. Lo stigma in ogni caso resiste ancora”. 

Le nuove infezioni 

“Nel 2020 abbiamo avuto circa 1.300 nuove infezioni di Hiv in Italia”, un numero dimezzato rispetto al 2019. “Dietro questo dato potrebbero nascondersi 3 fattori: due negativi e uno positivo – regiona Iardino – Sicuramente la pandemia ha determinato una certa percentuale di mancata esecuzione dei test da parte di persone infette”, che quindi non sanno di esserlo, “ma a questo si associa anche un problema che stiamo osservando di mancate notifiche”, cioè le diagnosi ci sono state, ma non sono state comunicate per il conteggio. “E poi c’è un terzo aspetto positivo: ed è che magari circola meno virus in Italia rispetto ad altri Paesi dove l’aderenza al trattamento non è così alta. Vorrei aprire una finestra nuova. Da una parte il Covid ha ridotto le diagnosi, ma di tutte le patologie. Ma dall’altra parte noi abbiamo raggiunto successi scientifici straordinari, per cui se oggi una persona è aderente al proprio trattamento non è più in grado di infettare. E’ quello che riassumiamo nella formula ‘Undetectable = Untrasmittable’ (virus non rilevabile, grazie alle cure, equivale a non trasmissibile, ndr). Possiamo dunque ipotizzare che, almeno in Italia dove abbiamo un’aderenza altissima al trattamento, sopra il 90%, circola meno virus. Dall’altro lato poi, Covid ha sicuramente rallentato le nuove diagnosi”.  

Il combinato disposto dei due fattori, continua Iardino, “ci porta ad avere intorno ai 1.300 casi in Italia. Ma c’è un altro fattore che stiamo scoprendo, per esempio in Lombardia, e cioè che i medici non fanno la notifica delle nuove infezioni. Sembrerebbe che per alcuni centri, in questo pandemonio che è stato Covid, con il personale che era quello che era e le priorità che erano altre, ci sia stata addirittura una sottonotifica del 40%, per quanto riguarda la Lombardia. E’ un tema che abbiamo posto all’attenzione e infatti domani avremo una Commissione regionale Aids su questo. E credo che la Lombardia non sia l’unica Regione ad aver avuto questo problema”.  

Campagne per le nuove generazioni, ministero non pervenuto 

Oggi, però, “di ‘undetectable’ non c’è solo il virus nelle persone con Hiv che sono aderenti alle terapie – dice Iardino – Anche il ministero della Salute e quello dell’Istruzione sono ‘non rilevabili’ per quanto riguarda le campagne di sensibilizzazione dei giovani sul tema della prevenzione dell’Aids. Per tutte quelle che sono le grandi questioni che abbiamo l’opportunità di eradicare, c’è un grande vuoto nella parte che riguarda i giovani. La formazione per loro è zero. Facciamo fatica a far modificare a un adulto i propri comportamenti, ma i giovani sono completamente sprovvisti di qualsiasi informazione oggi”. C’è un aspetto che è la cultura e che, secondo Iardino, sarebbe una leva fondamentale. 

E poi ci sono gli strumenti di prevenzione, le strategie ‘alleate’. Armi come la Prep, (profilassi pre-esposizione), cioè farmaci usati a scopo preventivo da gruppi ad alto rischio? “Sì, ho espresso un giudizio positivo al riguardo – risponde Iardino – perché ci sono evidenze, dati scientifici, che ne mostrano l’utilità e io resto di questa opinione. Il tema però è che comunque la Prep rimane uno strumento di riduzione del danno, dovrebbe essere legalizzata e a carico del Servizio sanitario nazionale, ma non basta”. Tra l’altro, aggiunge, “il farmaco per la Prep è anche generico e non capisco le reticenze a darlo gratuitamente. C’è un po’ di ideologia: è come se si pensasse che è molto meglio che uno non faccia sesso, e che lo Stato non dovrebbe pagare per un tuo stile di vita”.  

“Dopodiché, però – precisa l’attivista – lo Stato è anche il primo responsabile rispetto al fatto che non ci sia una cultura sull’uso del profilattico. E torniamo al discorso di prima. Alcune operazioni sono completamente non rilevabili, non pervenute: la strategia per la riduzione del rischio nel nostro Paese non è rilevabile, il ministero della Salute con le campagne di sensibilizzazione non è rilevabile, il ministero dell’Istruzione non è rilevabile, perché è anche compito della scuola dare informazioni corrette. L’insieme del fatto che tutti non siano rilevabili lascia alle associazioni un compito molto gravoso, tenendo conto che non ricevono un euro di finanziamenti pubblici”.