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De André raccontato da Malaspina, custode della sua ultima ‘notte’: “Ricordo il mio Fabrizio”

Di Giacomo Chiuchiolo

Fabrizio De André è avvolto in una nuvola di fumo, la frangia lunga accarezza una tazza di tè, preparato nel caso in cui fosse venuta meno la voglia di fumare. Sul tavolo c’è un posacenere di cristallo colmo di sabbia, dentro centinaia di mozziconi annegati. Il volto è sereno perché non c’è più traccia di alcol nei suoi pensieri. Fabrizio è un uomo nuovo e come sempre ha voglia di creare, perché non può farne a meno.   

Discute per 4 ore sulla parola ‘lenta’, associata alla miseria. Si chiede se possa avere senso, perché per lui ogni parola ha un peso enorme. Al suo fianco c’è un giovanotto che condivide la sua stessa visione del mondo, e forse per questo lo capisce subito. Il motivo preciso però non si può sapere, sono cose che vengono e basta. Come una giornata con Fabrizio, dove il tempo perde di significato e si smarrisce tra le pieghe di una sigaretta e un senso nuovo ogni volta. 

Il giovanotto accanto a Fabrizio è Oliviero Malaspina, ora cantautore, poeta e scrittore, un tempo la stessa cosa ma con diversi anni in meno. I due si erano conosciuti tempo prima ad un concerto di Fabrizio allo Smeraldo di Milano, l’impatto non fu dei più sereni: “Gli portai una tesi di laurea di un amico, non fu disponibilissimo vista la tensione sul palco”, racconta Oliviero Malaspina a Italia Sera. Non poteva sapere che si sarebbero rivisti. E che non si sarebbero più mollati. 

Sei anni spalla a spalla, tutti d’un fiato. Cristiano De André fece leggere una raccolta di poesie di Oliviero al padre, così arrivò la chiamata di Fabrizio: “Ero in macchina, mi ha chiesto se potevamo vederci il giorno dopo, ho pensato ‘adesso cosa gli dico? – racconta Oliviero – Per me era come un Dio, ero cresciuto con le sue canzoni”. È nato tutto così. E l’incontro è andato meglio del previsto: “I primi 5 minuti era timido, qualche discorso per tagliare l’aria, poi basta. A me sembrava di conoscerlo da una vita, siamo andati via spediti, tranquilli”. Per sei anni, fino all’ultima notte. 

I Notturni 

La scena era più o meno la stessa tutti i giorni: Oliviero arrivava a casa di Fabrizio, sempre alle 15 però, perché prima non c’era verso di svegliarlo. Poi iniziava il rito dei posaceneri e del tè: “Ho un ricordo di Fabrizio con delle nuvole enormi sopra di noi, fumava 3 o 4 pacchetti di MS blu al giorno, dalle 15 del pomeriggio fino alle 2 o alle 3 di notte. C’era tutto fumo sopra di noi, dentro di noi”. 

Intorno il buio, almeno quello a cui aspirava l’ultima opera rimasta incompiuta di Fabrizio, ideata e portata avanti con lo stesso Oliviero Malaspina. Doveva chiamarsi ‘I Notturni’, di quell’ultima visione del mondo è rimasto qualche verso reso noto e appunti secretati: “L’idea di fondo era la paura della notte di un suo amico sardo – racconta Malaspina a Italia Sera – Ma era un presupposto per archetipizzare i concetti, poi partendo dal De Rerum Natura. Inizialmente partimmo per dare un ‘vaffa’ al 1900, concentrandoci su Cioran, poi deviammo per rileggere Pavese ‘Dialoghi con Leuco’. Ma il nostro background era piuttosto ampio”. 

Un’opera incompiuta di cui Malaspina svela i dettagli: “De “I notturni” sono stati finiti i testi. Le musiche, che poi avremmo supervisionato erano 4 suite di circa 20 minuti l’una con orchestra sinfonica. Contaminazioni musicali dal Jazz all’etnico, fino alla classica. Ci era venuto in mente di ribaltare ancora una volta la canzone d’autore con un linguaggio musicale complesso e un linguaggio testuale con nessuna rima baciata ma assonanze, allitterazioni, rime al mezzo, prosa poetica e linguaggi settoriali”. 

Un’opera rimasta sospesa nella notte che per Fabrizio era “redenzione per l’umanità, soprattutto quella marginale. Per lui il momento di catarsi maggiore”, ricorda Malaspina. L’alba non è mai arrivata, anche se prevista: “Sì. come sempre. Nelle alternanze dei ritmi e dei colori, testualmente troviamo anche un’alba fatta di rugiada e uova di vipera”. 

L’amico Fabrizio 

L’intesa tra Oliviero e Fabrizio è immediata, non mancava giorno che i due non si sentissero: “Sei anni vissuti con lui, aveva deciso di realizzare ‘I notturni’, produrre il mio album ‘Benvenuti mostri’ e farmi aprire la tournee. E a tal proposito quando gli chiedevo perché io non fossi sulle locandine dei concerti lui mi diceva che voleva vedere la reazione del pubblico che non mi aspettava”. 

Il responso era sempre positivo, così come il giudizio di De André, che solo una volta ha avuto da ridire: “Alla fine delle mie esibizioni dicevo ‘grazie siete molto gentilì’. Lui una sera a Vigevano si è incazzato dannatamente e mi ha detto che quella frase lo irritava in quanto eravamo noi gentili che regalavamo delle opere alle persone che di conseguenza apprezzavano”. 

Normali deviazioni in un rapporto lunghissimo, spesso anche leggero: “Parlavamo anche di solenni cazzate, eravamo a volte dei cazzoni tremendi. Parlavamo di donne, anche di TV, che guardavamo a volte la sera o mettevamo di sottofondo quando qualcuno veniva a trovarlo. Mi ricordo una delle volte in cui passò Beppe Grillo: avevamo la tele accesa e c’era la Pivetti presidente della Camera e ci andarono giù pesante con lei. Fabrizio era molto divertente, sicuramente più di Grillo. Era molto timido sul palco e non faceva molte battute, ma in privato sì”. 

Dove andava De André c’era anche Malaspina, non si scappava: “La Nannini lo chiamò per invitarlo al suo compleanno, le disse che sarebbe venuto solo se fossi andato anche io. Andò così per sei anni. E ogni volta la stessa storia: io andavo con la mia macchina a prenderlo, al ritorno però si convinceva che non sapessi più tornare a casa, nonostante fossimo entrambi astemi, o ex alcolisti, fate voi. Puntualmente chiamava un taxi che doveva scortarci”. 

D’altronde il rapporto di Fabrizio con le strade, almeno quelle di Milano, non è mai stato idilliaco: “Se lo mettevi fuori dal portone e gli spiegavi come andare in Duomo lui era assolutamente ignaro, non si è mai preso il disturbo di prendere una cartina della città. È riuscito a descrivere alcune situazioni senza muoversi dal divano di casa. Magari prendendo spunto da certi libri, questa era la sua grande capacità, il suo vedere oltre”. Merito della sua visione del mondo: “Aveva la certezza che l’individuo fosse un unicum, uno e con le sue radici. Anche messe per trapianto. Come il suo essere sardo”. 

Processo creativo 

Come nasce una canzone di De André? “Fabrizio per sé tendeva prima a scrivere quasi un racconto, poi portarlo in prosa, poi in testo – analizza Malaspina – Nella sua opera c’è istinto e c’è genialità. C’è lungimiranza. La sua opera è un libro sul mondo. Al contrario di molti colleghi non è mai autobiografico se non in 3 brani”.  

Mai una parola per riempire, sempre con un significato preciso: “Per un brano del mio album ‘Malaspina’, discutemmo per 4 ore sull’aggettivo ‘lenta’, destinato alla miseria. Dal lì siamo passati a parlare di trapianti e di organi presi dai bambini della favela”. Del suo repertorio si innamorava a periodi: “C’era il periodo del riarrangiamento con Piero Milesi della Buona Novella, quello di Creuza de ma. In generale era stufo della lingua italiana e amava i dialetti, il linguaggio settoriale, dell’italiano classico si era un po’ stufato”. 

Così come di un suo insospettabile album: “Ripudiava un album secondo me interessantissimo ‘Tutti morimmo a stento’, infatti non ha mai messo nulla in repertorio – ricorda Malaspina a Italia Sera – Mi disse che era un album che non sopportava più, tanto da non voler pensare di averlo scritto. Quando gli chiesi il motivo farfugliò qualcosa che non capii”. 

La disputa con Dori Ghezzi 

Appunti, correzioni, modifiche. Nella produzione di Oliviero Malaspina c’era molto anche di Fabrizio De André. Un sodalizio andato avanti per anni e che ha dato vita a diverse opere, come l’album ‘Benvenuti mostri’: “Tutto quello che Fabrizio ha scritto con me per ‘Benvenuti mostri’ per Dori Ghezzi sono semplicemente dei suggerimenti”, afferma Malaspina. 

“E’ una cosa erronea perché sono stati fatti con un contratto in esclusiva. In secondo luogo l’intervento sul testo implica per forza una questione SIAE. Terza questione: lei sostiene di non trovare più il materiale che lo ho inviato sul quale abbiamo lavorato insieme io e Fabrizio, cosa che non credo. Io ce l’ho, tutte le correzioni avvenivano sulla parte destra dei miei scritti e dei miei appunti dove mi scriveva magari ’qui potremmo approfondire questo, qui potremmo mettere questo o quello’.   

Continua il cantautore: “Al momento della firma del contratto, che prevedeva la parte di SIAE, io mi sono rifiutato. Dori Ghezzi voleva che la canzone fosse firmata Cristiano De André, Oliviero Malaspina e Corrado Rustici. Ma la firma avrebbe dovuto essere Fabrizio De André, per questo mi sono rifiutato di firmare il modello 112 e l’autorizzazione editoriale alla pubblicazione. La pubblicazione è avvenuta lo stesso contro la mia volontà, con le tre firme che richiedeva Dori Ghezzi e con l’assenza quindi di Fabrizio. Una cosa molto scorretta”.   

“Sarebbe una cosa da causa, ma non sono tipo da cercare rogne. Anche se la figura di Dori Ghezzi, tramite il loro avvocato, mi ha messo in mora. Al che io ho proposto di andare da un giudice di pace con un filologo o semiologo a testa per decidere se fosse autentico o meno, cosa che mi sembra scontata. Infatti non ho più ricevuto niente. La mia proposta li spiazzava, qualsiasi giudice di pace sa benissimo distinguere un intervento sul testo anche di 7 parole e sa che è comunque parte di un lavoro”. 

La malattia 

Ciao belin, vado a farmi un po’ di giorni di vacanza sotto tortura, poi ti chiamo e riprendiamo le nostre cose”. Poi il vuoto e il dolore. Sono state queste le ultime parole di Fabrizio a Oliviero, prima di andarsene. Non ci credeva nemmeno lui, non ci ha fatto credere nessuno: “Lui riusciva a convincerti di certe cose, che ce l’avrebbe fatta, anche se parlando con Dori la situazione non era delle più rosee. Secondo me ci credeva veramente anche lui. Non ha mai dato segno di sconforto”. 

“L’ho visto più incazzato per le sue diete che cadere nella disperazione. Gli ultimi due mesi, quando non c’era più nessuna barriera tra noi, magari aveva qualche tipo di sconforto infantile, tipo ‘cosa state mangiando di là’. Perché Lui aveva questa dieta a base di verdure che lo faceva incazzare da morire. Magari gli dicevo che noi avevamo mangiato polenta e cinghiale e lui si incazzava di più”. Nessuno sconforto, solo una raccomandazione: “Una cosa faceva spesso: mi implorava di smettere di fumare. Probabilmente si era reso conto che erano state quelle a segnare la sua fine”. 

Fabrizio non è mai tornato, Oliviero lo sto ancora spettando: “Non ho ancora superato la fase del lutto, che poi è quella del ricordo. Non passa giorno che non pensi a lui, come ai miei cari scomparsi. Me lo porto dentro. Una bella convivenza”. Fino all’ultimo. Fino all’ultima notte. Quella che avrebbe voluto mettere in musica, senza riuscirci. Il buio prima dell’alba, una sigaretta sempre accesa. Quella di Oliviero, che non è ancora riuscito a buttare.