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Elezioni in Etiopia, la probabile vittoria del partito di Abiy Amhed e le promesse mancate

Il voto sarà una riconferma per il Prosperity party, il partito del primo ministro in carica, ma non segnano la svolta democratica del Paese

Si svolgono oggi in Etiopia le elezioni per rinnovare il Parlamento nazionale e diverse assemblee regionali. Elezioni “a loro modo storiche”, scrive il Postperché “davvero libere, secondo il governo guidato da Abiy Amhed, dopo decenni di dittatura”. Ma è davvero così? I sondaggi danno come facile vincitore il PP (Prosperity Party), il partito del primo ministro Ahmed. “Una riconferma in linea con una tradizione politica che interpreta il passaggio elettorale come momento di legittimazione, piuttosto che di possibile contestazione, dell’ordine esistente”, ha commentato il professor Luca Puddu per l’Ispi. Una dichiarazione da cui è utile partire per comprendere meglio le elezioni in Etiopia.

Le accuse ad Abiy Ahmed

Quando Ahmed è stato nominato primo ministro nel 2018, nel Paese sembrava soffiare una ventata di democrazia e prosperità dopo decenni di conflitti e dittature. La giunta del Derg prima e il controllo pressoché totale dello spazio politico da parte del Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope poi, hanno portato Ahmed al potere (non senza eventi traumatici, tipici del Paese) con grandi aspettative di un radicale cambiamento. Promesse inizialmente mantenute sulla scia della promozione dei processi di democratizzazione e del rispetto dei diritti umani. Come scritto dall’Ispi, Ahmed nei primi tre mesi di governo “ha liberato migliaia di prigionieri politici, liberalizzato la stampa, legalizzato diversi gruppi di opposizione precedentemente criminalizzati […] e posto fine a 18 anni di conflitto latente con la vicina Eritrea”. Un impegno, quest’ultimo, che gli valse il premio Nobel per la pace nel 2019.

Poi, però, qualcosa si è interrotto nella tanto attesa “pacifica transizione democratica”. Dopo il riconoscimento internazionale, il suo governo ha iniziato ad adottare metodi sempre più autoritari. Nel periodo pre-elettorale le forze di opposizione hanno denunciato irregolarità e violenze. Alcuni partiti si sono ritirati dalla disputa elettorale (Fronte di liberazione Oromo, Oromo’s Federalist Congress e il Fronte di liberazione Ogaden) denunciando arresti tra i loro principali esponenti. L’Unione europea segue da lontano la “complessa situazione nel Paese”, rammaricandosi di non poter mandare una missione di monitoraggio elettorale.

Poi c’è la questione nel Tigray, quella che la popolazione locale chiama “la guerra invisibile”. Da mesi ormai la regione settentrionale dell’Etiopia è teatro di un conflitto tra l’esercito di Addis Abeba, le milizia Ahmara e il Fronte popolare di liberazione del Tigray. Una guerra che ha già provocato la fuga di oltre sessantamila persone nel vicino Sudan, in cui l’esercito nazionale è accusato di “stupri, crimini di guerra e di affamare la popolazione”. Accuse che il governo di Addis Abeba nega e sulle quali il Consiglio di sicurezza delle Nazione Unite ha preso tempo (troppo) per intervenire.

In tale contesto, in Tigray (al quale spetta 38 seggi parlamentari su 547) le elezioni sono rinviate a data destinarsi. Stessa sorte in alcune zone occidentali dell’Oromia (178 seggi), la regione più popolosa dell’Etiopia, nel Benisciangul-Gumus (al confine con il Sudan) e in altre parti nel Sud del Paese, dove il voto è stato fissato per il 6 settembre.

La forza del Prosperity Party

Ciononostante, ricorda Puddu, “sarebbe errato circoscrivere la riconferma del PP ai soli addebiti di chiusura dello spazio politico”. Ahmed infatti gode di ampio consenso in diverse zone e fasce del Paese che accolgono con favore “la necessità di limitare gli effetti centrifughi del federalismo etnico”. Sul Medemer (sinergia), manifesto politico di Abyi Ahmed, viene posto il paradigma dell'”unità contro la frammentazione“, ovvero il tentativo da parte di Ahmed di “rimediare alle derive centrifughe del federalismo etnico, proponendo una rilettura in favore del rafforzamento del potere federale rispetto a quello delle regioni”. Una probabile stabilità – ipotizza Puddu – che rischia però “di acuire la distanza tra città e campagne, dove il principio di rappresentanza etnica ha attecchito con maggiore vigore”.

Mario Bonito