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Fondi e risorse necessarie per far fronte alla crisi. La proposta del presidente dell’UCID Riccardo Pedrizzi

Utilizzare il TFR, i debiti della Pubblica Amministrazione e le accise che, nell’insieme, ammontano a ben oltre 140 miliardi. Un vero tesoro che andrebbe utilizzato solo se qualcuno – governo e ministri – volesse e sapesse metterci mano. L’intervento di Pedrizzi, presidente dell’UCID Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti del gruppo regionale Lazio e del CTS Comitato Tecnico Scientifico

Raffaele Panico

E’ indubbio – ci scrive l’ex senatore Riccardo Pedrizzi, già presidente della Commissione Finanze e Tesoro del Senato (2001-2006) che servono soldi, tanti soldi per fronteggiare la drammatica crisi che sta devastando la nostra economia e da mesi ormai impazza “la tombola” delle varie proposte per individuare e decidere da quali fondi dovranno essere attinte e recuperate le risorse necessarie: dal Next Generation Ue (l’ex Recovery), dal Mes, dal Sure, a debito dei nostri conti, a deficit, da nuove imposte e tasse, da ulteriori tagli ai bilanci dei ministeri, dalla finta, atavica e mai realizzata lotta all’evasione e all’elusione? Di conseguenza come fare? L’argomento scottante e decisivo per il rilancio del sistema-Paese Italia, la proposta suggerita anche grazie ad un colloquio con un collega esperto della materia inerente alla ricerca di una soluzione subitanea al problema potrebbe verosimilmente e agevolmente trovarsi. E si tratterebbe di agevolare le imprese iniettando la liquidità necessaria – come carburante di cui le imprese hanno gravemente bisogno, senza ricorrere a fondi pubblici, senza aspettare le incerte se non ancora fantomatiche risorse europee e, per giunta, senza indebitarsi con il sistema bancario. Si tratta solo di utilizzare mezzi propri che sono accantonati presso l’INPS nel “Fondo liquidazioni”.

Nella breve concisa presentazione – sottolinea Pedrizzi – che, nel “Fondo liquidazioni” dell’INPS esiste una liquidità rilevante, fondi “che sono stati sottratti nel tempo e vengono sottratti alle imprese stesse. Molte aziende potrebbero infatti risolvere in parte i propri problemi di liquidità se il governo sospendesse una norma che allora fece molto discutere. Come qualcuno ricorda con legge del 2006 del governo Prodi, dal 1° gennaio 2007 le imprese private, con oltre 50 dipendenti, sono obbligate a versare all’INPS (in quote mensili) l’ammontare da accantonare ogni anno per la liquidazione dei propri dipendenti, il cosiddetto “trattamento di fine rapporto”. Tale norma fu approvata per indurre i lavoratori a trasferire quello che un tempo veniva definito “salario differito”, annualmente alla propria posizione nel Fondo pensione negoziale di categoria al fine d’incrementare la previdenza complementare consentendogli di avere un’integrazione della pensione. Era però richiesto il consenso del dipendente In caso contrario, quei fondi avrebbero dovuti essere conferiti dal datore di lavoro all’INPS.

Poiché in realtà solo una minoranza di lavoratori ha aderito a questa decisione (8 milioni sui 18 di lavoratori dipendenti), i datori di lavoro sono obbligati ogni anno a versare all’INPS, allo stesso titolo giuridico dei contributi previdenziali obbligatori, la percentuale sulla retribuzione dei propri dipendenti corrispondente al trattamento di fine rapporto che – secondo l’art. 2120 del Codice Civile (riformato in peius nel 1982 rispetto all’originaria normativa) – corrisponde al 7,40% della retribuzione lorda annua.

Si tratta di un serbatoio finanziario molto ingente su cui cadde l’attenzione del governo di sinistra guidato da Prodi, il quale decise di utilizzarlo per finanziare indirettamente l’INPS.

Il centro studi “Itinerari Previdenziali” del prof. Alberto Brambilla ha analizzato questa situazione e ha calcolato che dal 2007 al 2019 all’INPS sono affluiti circa 140 miliardi “sottratti alle imprese italiane”.

Precisiamo al fine di rendere bene l’idea di cosa stiamo parlando che, innanzitutto, il TFR è giuridicamente un risparmio “forzoso” del lavoratore, detto anche “salario differito”, ovvero, come lo definì l’ex sottosegretario al lavoro Alberto Brambilla “Circolante interno all’impresa”, introdotto nel Codice Civile del 1942 e avviato addirittura nel 1927.

Esso deve essere erogato al termine del rapporto di lavoro ed era stato concepito inizialmente per sopperire a periodi di disoccupazione.

Successivamente si consentì che avrebbe potuto essere anticipato – fino ad una certa cifra – su richiesta del lavoratore per acquisto casa, spese sanitarie o essere conferito alla previdenza complementare.

La normativa non attribuisce la conservazione degli importi accumulati al lavoratore (ed è intuitivo, potrebbe spenderli facendo così perdere la funzione del risparmio forzoso a sua tutela) ma al datore di lavoro prima e ora all’INPS.

La cosiddetta “proprietà del lavoratore” è, peraltro, indiscutibile anche se è solo virtuale, perché trattasi di un’aspettativa di diritto, così come i contributi previdenziali utili per la pensione.

Che la modalità della sottrazione della disponibilità del TFR al lavoratore, a sua tutela, sia questa, è confermata anche dalla norma, che obbliga il trasferimento all’INPS solo alle aziende con più di 50 dipendenti e, quindi, non a quelle imprese con meno di 50 dipendenti.

In questo ultimo caso, esso continua ad essere detenuto e gestito dal datore di lavoro.

La mia proposta si riferisce perciò alla Parte non optata del TFR che potrebbe essere restituita alle imprese. Si ricordi che allora, quando fu introdotta la normativa, questa fu considerata in effetti dalle imprese come una vera e propria nuova imposta, perché le sottraeva liquidità.

La questione di fondo, infatti, è: visto che questo TFR, per la parte non destinata alla previdenza complementare, è versata all’INPS dalle imprese oltre 50 dipendenti non sarebbe il caso, in questo momento di crisi, di ripristinare la vecchia norma ante-Prodi e lasciare questa disponibilità alle aziende?

Per decenni, in Italia, si è parlato dell’autofinanziamento a costo zero delle Imprese mediante il TFR; altri hanno addirittura proposto che questi importi fossero utilizzati per “la partecipazione dei lavoratori”. Ora qual è il problema per non ripristinare questa funzione dell’economia aziendale? Forse perché all’INPS di Tridico darebbe qualche problema?

Ora, visto che ci troviamo in una situazione di gravissima crisi, queste ingentissime risorse potrebbero essere molto utili: basterebbe esonerare almeno per un paio di anni dai versamenti all’INPS per dar respiro alle imprese in difficoltà, ma anche per consentire alle imprese sane di effettuare investimenti in innovazioni tecniche necessarie alla trasformazione in lavoro da lontano.
È la scoperta dell’acqua calda? E mi chiedo come mai nessuno, nemmeno i rappresentanti degli imprenditori, abbia preso in considerazione e proposto questa possibilità?

Ma a queste somme si potrebbero anche aggiungere i 3,380 miliardi di accise che lo Stato deve restituire a seguito dei ricorsi che decine di migliaia di imprese di ogni settore e di tutte le dimensioni stanno presentando tramite le varie associazioni di categoria (Casartigiani, CNA, Confartigianato, Confcommercio, Confesercenti, Confindustria, Utilitalia) per vedersi riconoscere la tassa sui chilowattora denominata addizionale provinciale (0,93 centesimi sull’energia elettrica consumata).

Ed infine ci sarebbero gli oltre 30 miliardi di Euro di debiti scaduti della Pubblica Amministrazione (Stato, Regioni, Sanità ed enti territoriali) che tardano ad essere erogati. Insomma nel complesso si tratta di un tesoretto che andrebbe utilizzato solo se qualcuno (governo e ministri) volesse e sapesse metterci mano.