POLITICA

La guerra in Libia non si ferma: razzi di Haftar su Tripoli

La dichiarazione di Berlino, con cui i governi europei siglavano accordi per un cessate il fuoco in Libia, sembra ormai una questione di un’altra era geologica. Eppure era gennaio 2020, precisamente la domenica del 19. I leader, senza sosta (e con pochi risultati), mettevano a disposizione il giorno di riposo per trovare una soluzione “diplomatica” in quella zona del mediterraneo, ai confini dell’Europa, che rischiava di sbriciolare rapporti consolidati fra le nazioni e un pericoloso scontro tra due “giganti”, la Russia e la Turchia, militarmente non proprio dai piedi d’argilla.

Oggi le forze e le preoccupazioni sono rivolte alla lotta contro il Covid-19.

Ma la guerra continua. Non si ferma come le Olimpiadi di Tokyo o come quelle durante le guerre. Oppure non è la guerra stessa a fermarsi, come nell’antica Grecia, dove le Olimpiadi erano motivo di una tregua. Quella in Libia è infame, subdola, dove a morire sono solo i libici: una guerra civile, dove di civiltà ce ne è ben poca. Una definizione di cui sarebbe interessante conoscere le origini.

Le parti in conflitto sono rappresentate da Fayez al-Sarraj, primo ministro del governo di accordo nazionale, insediatosi a Tripoli con gli accordi di Skhirat e riconosciuto dalla Nazioni Unite, e da Khalifa Haftar, noto come “l’uomo forte della Cirenaica”, generale dell’esercito nazionale libico.

Nella mattina del 14 aprile le milizie del generale Haftar, dopo aver perso il controllo di due città strategiche e della costa a Ovest di Tripoli, hanno lanciato razzi contro l’aeroporto di Mitiga e la zona Sud della città, provocando feriti e la morte di un bambino di nove anni, una delle tante vittime innocenti, le più colpite da una guerra che strazia il paese da ormai quasi dieci anni.

Mario Bonito