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    Le primarie croce e delizia per il Pd

    “Le primarie sono da sempre la delizia e la croce del Pd. Un po’ più croce che delizia, a dire il vero. Quantomeno negli ultimi tempi. Oggi per l’appunto si scelgono i candidati sindaci di Roma e di Bologna. Domenica scorsa lo stesso rito s’è celebrato, un po’ mestamente, a Torino. L’indomani, numeri, tendenze e riscontri daranno luogo a una lunga scia di interpretazioni. 

    Il fatto è che a queste primarie sembrano mancare due ingredienti fondamentali. La suspence del risultato e il numero dei votanti. A Roma si dà per scontata l’affermazione di Gualtieri, a Bologna si considera probabilissima quella di Lepore. Entrambi sponsorizzati fin troppo generosamente dal segretario Letta. Come a dire che l’ordine d’arrivo sembra già quasi fissato alla partenza -cosa che rende la corsa non proprio così avvincente. E infatti questa sensazione di esiti già decisi, o quasi, pare destinata a scoraggiare i militanti dal recarsi ai gazebo. 

    Ora, sia chiaro, le previsioni sono fatte per essere smentite. E anche i poco più di diecimila torinesi che hanno votato domenica scorsa meritano rispetto. Si tratta pur sempre di gesti di militanza che si stagliano in un panorama di disaffezione politica e di inquietudine sociale e sanitaria. Gesti apprezzabili, anche se i numeri non sono quelli di una volta.  

    Ma se appunto i numeri non sono più quelli forse ci si dovrebbe fare una domanda più impertinente. E cioè, che senso abbia chiamare i cittadini alle urne per scegliere il proprio amministratore locale quando le organizzazioni di partito -più o meno tutte- hanno assunto al centro un carattere, diciamo così, piramidale.  

    E’ la conformazione dei partiti, infatti, la vera questione. Fin quando nelle forze politiche ci si accapigliava tra tanti c’era di che lamentarsi di tutto quel bailamme. E pazienza se all’epoca quell’accapigliarsi era denunciato dai più come il segno di una degenerazione correntizia o frazionista a cui si sarebbe dovuto un giorno o l’altro porre riparo. Ma ora che invece nei partiti va di moda quasi ovunque la figura dell’uomo solo al comando s’è perso il gusto di partecipare; e proprio questo deficit di democrazia sta pian piano corrodendo le fibre del nostro sistema politico a dispetto della retorica con cui si vorrebbe nascondere la cosa.  

    In tutti i partiti il leader cala dall’alto, avvolto in una nuvola di incenso. A destra, Berlusconi, Salvini e Meloni governano le loro case in modo fin troppo assertivo. Chi resta ubbidisce. Chi dissente cambia casa. Dalla parte opposta, Conte è stato appena scelto con un’investitura dall’alto, anzi dall’”elevato” come usa dire da quelle parti. Nel Pd Letta è stato invocato dai capi di quelle correnti che lui s’è ripromesso di sgominare. Insomma, non c’è quasi luogo della nostra vita pubblica in cui si svolga una autentica, affollata ma limpida contesa aperta a ogni possibile risultato e magari destinata a venire capovolta in corso d’opera. Come avveniva (anche troppo, forse) nei partiti di appena qualche anno fa. 

    E’ ovvio che se il modello di leadership è solitario, esposto al lamento ma quasi mai alla sfida, la conseguenza è che iscritti e militanti -se ancora ne esistono- sono tentati di non dare un gran peso alle occasioni che gli vengono offerte per dire la loro. Infatti, se tutto cala dall’alto in nome della sacralità della leadership, se è sempre il capo a scegliere linea, alleanze, e soprattutto i parlamentari, uno per uno, in primissima persona, non vale la pena che tutti gli altri si scomodino più di tanto. 

    Come sempre, la difficoltà di oggi sta racchiusa dentro gli errori di ieri l’altro”. 

    (di Marco Follini)