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Rai senza l’aiuto del canone: che succederebbe?

Così come per altre ‘tasse’ storiche, capaci di mandare su tutte le furie gli italiani (dal bollo auto, alle accise per i carburanti), quello del canone Rai è sicuramente uno degli argomenti politicamente più gettonati. Servizio pubblico – ma economicamente autonomo, vedi gli spot, o a pagamento, con ‘noi’ a contribuire anche sulla programmazione? Un quesito tanto ‘antico’ quanto complicato. E visto che nelle ultime settimane la politica ha risollevato la questione (ma visto che partiamo per le ferie sarebbe stato più opportuno affrontare, e semmai ‘risolvere’ la questione ‘accise’ sui carburanti), la possibilità del varo di un’apposito ddl non è poi da considerarsi tanto remoto.
Per capire meglio, Veronica Marino, dell’agenzia di stampa AdnKronos, ha incontrato la ‘vulcanica’ consigliera Rai, Rita Borioni, che non ha certo esitato a servire il suo punto di vista in merito all’eventuale soppressione del canone di abbonamento.
“Non avrebbe senso discutere di una proposta di legge della quale, ad oggi, è disponibile solo il titolo – analizza la consigliera – Ma poiché da alcuni giorni si susseguono gli annunci di abolizione del canone Rai, forse è venuto il momento di riflettere, almeno, sulle conseguenze. Quello che si può supporre dal titolo della proposta di legge è che, a fronte della abolizione del canone, sarebbero aboliti anche i limiti di affollamento pubblicitario che oggi sono imposti alla Rai nella misura del 4% settimanale mentre sono del 15% giornaliero per le singole reti commerciali autorizzate alla trasmissione”. Dunque, ragionando di fatto su cosiddetti ‘tetti pubblicitari’, la Borioni spiega che “l’equiparazione dei limiti di affollamento tra Rai e reti privavate, comporterebbe di quadruplicare, in media, la quantità di interruzioni pubblicitarie nelle trasmissioni della Rai. E questo solo per iniziare, considerato che la Rai, al fine di competere sul mercato per la conquista di inserzioni pubblicitarie, dovrebbe anche rinunciare a tutta la programmazione di nicchia, quella di divulgazione culturale, di sperimentazione di nuovi formati o nuovi linguaggi, l’offerta dedicata agli sport ‘minori’ e così via. Diciamo, quindi, subito addio a Rai Cultura e a Rai Storia, ma anche ai canali di Rai Sport. A chi poi ha bambini è noto che Rai ha tolto la pubblicità a Rai Yoyo, il canale dedicato ai più piccoli, mentre su Rai Gulp la pubblicità è strettamente monitorata. Ma si potrebbero continuare a perseguire questi criteri dovendo contare solo e unicamente sul mercato pubblicitario?”.
Premesso poi che “La Rai ha molti, moltissimi difetti e mancanze: i livelli di pluralismo, la qualità di molte trasmissioni, il ritardo nell’innovazione, l’indulgere nella ripetitività di formule, l’intromissione, spesso intollerabile e arrogante, della politica, la scarsa attenzione ai talenti interni e la miopia rispetto ai talenti e alla creatività che vivono fuori dalle sue mura. Ma è anche l’unico soggetto nel panorama radiotelevisivo e multimediale italiano dal quale possiamo pretendere che abbandoni quei vizi e quelle mancanze”, in sostanza, fa notare il membro del Cda conversando con la cronista dell’AdnKronos, “Non pagare più il canone e affidarsi solo alla pubblicità significa diventare, in quanto spettatori, il prodotto che le televisioni vendono agli inserzionisti; diventiamo contatti, solo e unicamente consumatori. Non più cittadini ma solo consumatori. Se è gratis, la merce sei tu!”.
Poi la Borioni entra nello specifico, analizzando nel dettaglio la situazione: “Ci sono gli obblighi di investimento, promozione e programmazione di opere cinematografiche e audiovisive che, benché riguardino tutti i fornitori di servizi media audiovisivi lineari e non lineari, prevedono per la Rai quote percentuali da calcolarsi sui ricavi complessivi, sensibilmente più alte rispetto agli altri attori del sistema, e questo sempre in ragione del finanziamento attraverso il canone. Basti dire che nel 2017 i soli investimenti in progetti di coproduzione internazionale (produzione e preacquisto di opere cinematografiche, televisive, teatrali, multimediali con almeno un partner straniero) ammontavano a 45 milioni di euro. La pubblicità del settore radio-televisivo è in costante calo da diversi anni e ha un valore che supera di poco i 4 miliardi di euro; di questi la Rai raccoglie una cifra che ottimisticamente si colloca intorno ai 600 milioni e che copre circa 1/4 dell’intero bilancio dell’azienda. Anche immaginando una forte contrazione delle spese e considerando che il costo del personale oscilla tra i 900 milioni e il miliardo di euro, non credo sia plausibile (volendo conservare l’attuale perimetro di ascolti e di canali e di investimenti tecnologici, oltre che di personale) ipotizzare la sostenibilità di un bilancio di molto inferiore ai due miliardi. Ma due miliardi sono poco meno della metà del totale dell’investimento pubblicitario italiano del settore. E oggi, tutte le tv commerciali si possono spartire, calcolando a spanne, circa 3,5 miliardi di euro di pubblicità”.
Infine la giornalista Marino, domanda giustamente se poi l’eventuale abolizione del canone di abbonamento, finirebbe poi riflettersi anche sui media: “Ne sono convinta – ripsonde secco la Borioni – Anche ammettendo, nel mondo della fantasia più sfrenata, che Rai riesca a raccogliere tutto quello che è necessario alla sua sopravvivenza sul mercato, saranno altre le televisioni che cadranno, con il risultato di restringere la quantità di offerta (e, di fatto la concorrenza). Probabilmente si rafforzerebbero solo gli OTT – Over The Top – vale a dire le multinazionali internazionali (Netflix, Google, Apple) insieme ai grandi gruppi internazionali (Sky, Fox etc). Minore offerta, quindi, e grande espansione delle tv on demand a pagamento, quelle che non impongono una tassa iniqua, ma che costano una novantina di euro al mese. Senza trascurare l’effetto devastante che questa rivoluzione del mercato pubblicitario avrebbe sulla carta stampata. Sappiamo bene che non è affatto certo che Rai sia in grado di raccogliere, in un mercato difficile e in continua contrazione, le risorse necessarie a conservare l’attuale perimetro di offerta e occupazionale – ragiona infine la consigliera rispetto all’eventualità da parte della Rai, di potersi sostentare esclusivamente attraverso l’offerta pubblicitaria – È molto più probabile un netto ridimensionamento in termini di occupazione e di numero di canali. E quindi migliaia di dipendenti Rai a casa e questo senza considerare le conseguenze su tutto l’indotto (società di produzione, liberi professionisti, fornitori di tecnologie etc). I risparmi dovranno ricadere anche sull’informazione e sulle sedi regionali, oltre che sulle corrispondenze estere. E anche obblighi quali la conservazione, la digitalizzazione e la promozione delle Teche, l’offerta per le persone con disabilità sensoriali, l’informazione sulle istituzioni, i servizi di pubblica utilità (Iso Radio a titolo esemplificativo), non avrebbero più ragione di essere e non sarebbero più alla portata del bilancio di una Rai senza canone. E questo perché questi obblighi comportano moltissimi costi (che il servizio pubblico è ben lieto di sostenere) e poche, pochissime entrate economico finanziarie”.
Max