SECONDO UNA RICERCA CONDOTTA DALLA CGIA SEMPRE PIÙ DIPENDENTI ’SI FANNO LICENZIARE’ PER OTTENERE L’INDENNITÀ, GARANTITA PER DUE ANNI. MA DAVVERO ‘CONVIENE’?

“Ad averne innescato l’ascesa è stata una cattiva abitudine che si sta diffondendo tra i dipendenti. Seppur in forte crescita, questo fenomeno presenta delle dimensioni assolute ancora contenute. Nell’ultimo anno, infatti, lo stock ha interessato74.600 lavoratori. Se, comunque, seguiterà questa tendenza, è evidente che nel giro di qualche anno ci ritroveremo con numeri molto importanti”. Il ‘fenomeno’ in questione, che Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, denuncia presentando specifici dati e numeri, verte su un comportamento, secondo la Cgia molto ‘in auge’ in questi ultimi tempi. Praticamente sarebbe in forte aumento il numero dilavoratori (che la Cgia definisce ’scorretti’), i quali spingono le aziende alicenziarli, per consentire poi loro di poter ‘godere’ dei benefici dell’indennità mensile di disoccupazione. Ne è convinto l’Ufficio studi della Cgia,  che in merito a tale casistica – licenziamenti pergiusta causao giustificato motivo soggettivo nel settore privato – nell’ultimo anno ha censito unacrescita percentuale del 26,5 per cento. A convincere la Cgia della bontà delle loro affermazioni, il fatto che le altre tipologie di licenziamento, non presentano invece incrementi di crescita altrettanto importanti. Scorrendo infatti i dati, se i licenziamenti totali sono saliti del 3,5 per cento, quelli per giustificato motivo oggettivo sono invece aumentati del 4,6 per cento mentre, quelli per esodo incentivato, sono addirittura crollati del 19 per cento. Come fa notare il segretario della Cgia, Renato Mason, “Se una impresa contribuisce ad aumentare il numero dei disoccupati provoca dei costi sociali che in parte deve sostenere. Negli ultimi tempi, però, la questione ha assunto i contorni di un raggiro a carico di moltissime aziende e anche dello Stato, perché un numero sempre più crescente di dipendenti non rispetta la norma ecostringe gli imprenditori al licenziamentoe, di conseguenza, fa scattare la Nuova ASpI in maniera impropria”. E secondo l’associazione, il fenomeno ha ‘preso piede’ dal 2013, in seguito alla riforma Fornero che nei confronti di chi viene licenziato stabiliva una misura di sostegno al reddito con unadurata massima di 2 anni,costringendo di conseguenza l’imprenditore – che ha deciso di lasciare a casa il dipendente – al pagamento di una “tassa di licenziamento”. In questo caso, precisa ancora la Cgia, il datore di lavoro deve versare all’Inps una somma pari al41 per cento del massimale mensile della NASpI,per ogni 12 mesi di anzianità aziendale maturata negli ultimi 3 anni. Dunque, se prendiamo ad esempio un soggetto che ha maturato  un’anzianità lavorativa di almeno 3 anni, la tassa a carico dell’azienda può sfiorare i 1.500 euro. Ed il trend, come si spiegava in apertura, continua a crescere e, rispetto a quello del 2016, nel primo trimestre di quest’anno è stato già registrato un+14,7 per cento dei licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo soggettivo. E in tutto questo la Cgia ravvisa un’inerzia’ del dipendente il quale, in caso di dimissioni tende a voler evitare incombenze burocratiche, ed ottenere quindi la NASpI. Oltretutto, molti usano un ‘escamotage’ molto semplice: decidono improvvisamente di non recarsi più al lavoro senza nessun avvertimento preventivo. Questo perché, dal 2016, quando è stata introdotta ‘l’obbligatorietà delle dimissioni on-line’, se un dipendente intenzionato a non presentarsi più sul posto di lavoro, non avvertendo l’azienda o il titolare della volontà di interrompere il rapporto di lavoro, sta poi al datore di lavoro avviare la pratica attraverso illicenziamento per giusta causao per giustificato motivo soggettivo. Scatta così automaticamente la misura NASpI che, diversamente, nel caso di dimissioni volontarie non spetterebbe al lavoratore. “Questo astuto espediente – precisa Zabeo – sta creando undanno economiconon indifferente. Non solo perché costringe il titolare dell’azienda a versare la tassa di licenziamento ma anche alla collettività che deve farsi carico del costo della NASpI. Se quest’ultima viene erogata per tutti i 2 anni previsti dalla legge Fornero, il costo complessivo per le casse dell’Inps può arrivare fino a20.000 euro a lavoratore”. Onestamente, pur condividendo in parte quanto denunciato dalla Cgia, non possiamo però non farci una domanda lecita: ma quanti, tra questi lavoratori ‘scorretti’ – visti tempi che viviamo e la terribile crisi occupazionale in atto – c’è realmente la volontà di rinunciare a un posto di lavoro regolare (vedi i contributi), per soli due anni di NASpI? E se invece a tali ‘soluzioni’ sono spinti proprio da quei datori di lavoro ‘scorretti’ che cercano così un compromesso per sfoltire i propri dipendenti – magari promettendo loro una ricollocazione entro 3 anni – in maniera indolore’?

M.