POLITICA

Coronavirus, Stati Uniti e l’isola anti-Cina

Nel mondo occidentale Taiwan non se l’è mai filata nessuno. Le sue vicende, a torto o a ragione, sono confinate nel mondo asiatico da ormai trent’anni. Non riconosciuta dalle Nazioni Unite dal 1971, quando il seggio del Consiglio di sicurezza fu assegnato alla Repubblica popolare Cinese (quella continentale, per intenderci) in virtù del principio una sola Cina, oggi la vecchia isola di Formosa, antico retaggio dei coloni portoghesi, è sulle pagine di tutti i giornali.

Le cause sono le vecchie e mai sopite ruggini con la Cina, ma non solo. Lunedì scorso Taiwan non ha partecipato alla 73esima edizione dell’assemblea dell’Organizzazione mondiale della sanità per le pressioni di Pechino. Non è stata invitata, come ormai prassi dal 2016.

Oggi, 20 maggio, è iniziato ufficialmente il secondo mandato presidenziale di Tsai Ing-wen. La prima presidente donna di Taiwan, in carica dal 2016, aveva replicato il successo alle presidenziali di gennaio 2020. “Non accetteremo l’uso da parte di Pechino di ‘un paese, due sistemi’ per declassare Taiwan e minare lo status quo. Restiamo fermi nel rispetto di questo principio”, ha detto Tsai Ing-wen nel corso della cerimonia per il giuramento di stamattina. Una conferma elettorale ottenuta anche grazie alla forte opposizione alle politiche del presidente cinese Xi Jinping, che spinge per replicare sull’isola il modello Hong Kong.

La Cina dunque “non tollererà mai la separazione di Taiwan”, come affermato dal portavoce dell’Ufficio degli Affari di Taiwan del governo cinese, Ma Xiaoguang, in risposta al discorso di Tsai Ing-wen.

Ma perché questa vicenda ‘interna’ ha fatto tanto clamore anche da noi? A metterci lo zampino sono stati, neanche a dirlo, gli Stati Uniti d’America. Nonostante non riconoscano a livello internazionale il governo di Taiwan, a Tsai Ing-Wen sono arrivate molte congratulazioni dagli Usa per il nuovo successo. Il segretario di Stato, Mike Pompeo, si è complimentato con la presidente per “il suo coraggio e la visione nel guidare la vibrante democrazia di Taiwan”. È il primo segretario di Stato in carica a farlo. Più che a Taiwan, il messaggio era in direzione di Pechino.

Anche Sleepy Joe (Biden), lo sfidante di Donald Trump alle presidenziali di novembre, ha commentato la vicenda con un tweet: “La fiorente democrazia di Taiwan e la risposta al Covid-19 sono un esempio per il mondo”. Un bel modo per dissociarsi dall’accusa del tycoon di essere filocinese. È la campagna elettorale, baby.

Perentoria la risposta del ministero degli Esteri cinese: “Esprimiamo indignazione e condanna” nei confronti delle parole di Pompeo, che inviano “segnali sbagliati alle forze separatiste di Taiwan” e “danneggiano gravemente la pace e la stabilità delle relazioni tra i due Cina e Stati Uniti”. E la chiusa con la solita minaccia “gli Usa ne dovranno pagare le conseguenze”.

Dunque Taiwan, o la Taipei cinese, così viene chiamata alle Olimpiadi senza lo sconcerto di nessuno, oggi sale alla ribalta per la “vibrante democrazia”. Sembra piuttosto che lo scontro Stati Uniti-Cina, amplificato dalla pandemia e dalle insulse dichiarazioni dei loro leader nelle ultime settimane, rischi di diventare un grande problema geopolitico. Sinceramente in questi mesi non lo meritiamo, e non lo meritano neanche gli abitanti di Taiwan.

Mario Bonito