Ethiopian Airlines, l’amarezza dei familiari delle vittime

    Dopo un mese e mezzo dall’immane tragedia della Ethiopian Airlines, con lo schianto fatale del Boeing 737 Max che ha provocato la morte di 157 persone tra cui 8 italiani, il malumore delle famiglie non ha alcuna consolazione, neanche quella di poter onorare la memoria dei propri cari ricevendo i loro resti. I corpi sono stati abbandonati sotto l’azione degli agenti atmosferici. “Il 10 marzo ho perso la mia amata sorella nel tragico incidente – dice un parente di una delle vittime italiane. “Sin da quel giorno, ho cercato di ricevere rassicurazioni del fatto che tutto ciò che poteva essere trovato sul sito della tragedia sarebbe stato raccolto e collezionato in maniera efficiente e tempestiva. Nel corso di innumerevoli chiamate ed e-mail con le mie controparti, ho ricevuto informazioni costantemente contraddittorie. Con mio grande sgomento, mi è stato addirittura detto che era possibile e probabile che famiglie delle vittime, a una settimana dall’incidente, avessero già raccolto e portato via diversi oggetti dal sito, il che significava che le possibilità e probabilità di trovare resti e oggetti personale erano sempre più ridotte, se non addirittura limitate”.
     

    Ethiopian Airlines, l’amarezza dei familiari delle vittime: “Chiunque può accedere al sito” 

    Grande amarezza dopo 6 settimane per i parenti delle vittime del volo Ethiopian Airlines. Il racconto del familiare di una vittima continua: “Il 5 aprile ho deciso di volare ad Addis Abeba, in seguito alla mancanza di informazioni ricevute per quanto riguardava gli sforzi di recupero e in seguito alle numerose richieste di chiarimenti e conferme scritte che non hanno ricevuto risposta. Il 7 aprile sono andata sul luogo dell’incidente e ciò che ho visto mi ha lasciata costernata e sgomenta”. Non vi è nulla che possa bloccare chicchessia nel raggiungere il posto. “Un sito che sarebbe dovuto essere considerato, e di conseguenza trattato, come una scena del crimine, si è trasformato invece in un luogo in cui le persone entravano liberamente indossando le loro normali scarpe giornaliere e dove non sono state utilizzate attrezzature appropriate per salvaguardare la natura estremamente sensibile del luogo. Il sito non aveva neanche una protezione adeguata che lo salvaguardasse da intemperie e condizioni climatiche avverse, il che faceva si che effetti personali si deteriorassero ulteriormente e che possibili resti umani venissero continuamente portati alla superficie”.