Cassazione: non basta l’attenuante della pietà per chi uccide un malato terminale

    Non basta l’attenuante della pietà quando si uccide un malato terminale. Lo ha confermato in via definitiva la Cassazione in merito alla vicenda di cronaca risalente a giugno scorso che ha visto un 88enne, ex vigile urbano. È stata dunque confermata per l’uomo la condanna per omicidio volontario senza “sconto etico”.
    È stata la stessa Consulta a sollecitare recentemente (in occasione del processo contro Marco Cappato per la morte di Dj Fabo) il Parlamento affinché venga presentata una legge sull’eutanasia attesa entro il prossimo settembre, intanto però la Cassazione rimane del parere già espresso altre volte: non sono sufficienti le attenuanti di aver agito con “particolare valore morale” per chi uccide una “persona che si trovi in condizioni di grave ed irreversibile sofferenza fisica”. Non sono infrequenti i casi drammatici in cui qualcuno pone fine alla vita della persona che ama non sopportando più di vederla soffrire. A marzo il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha concesso la grazia a un uomo di 87 anni, Gastone Ovi, che nel 2012 aveva soffocato con un cuscino la moglie Ester, parrucchiera ormai gravemente malata di Alzheimer, dopo un matrimonio durato più di 50 anni.
    “Nell’attuale coscienza sociale il sentimento di compassione o di pietà è incompatibile con la condotta di soppressione della vita umana verso la quale si prova il sentimento medesimo”, ha scritto la Suprema Corte. Vitangelo Bini, ex vigile urbano 88enne, era stato condannato a 6 anni e mezzo di reclusione per aver ucciso con 3 colpi di pistola la moglie, malata di Alzheimer, ricoverata all’ospedale di Prato. La Suprema Corte ne aveva rigettato il ricorso, condividendo le conclusioni dei giudici del merito secondo i quali l’uomo si era trovato in condizioni di “diminuita capacità di intendere”, e riconoscendogli dunque le attenuanti generiche ma non quella di “aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale”.
    Proprio su questo punto verteva il ricorso presentato dalla difesa, in cui si rilevava che “secondo il sentire diffuso della comunità sociale, la partecipazione all’altrui sofferenza può essere vissuta, in casi estremi, anche con la soppressione della vita sofferente”. Una tesi non condivisa dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio, secondo i quali questa “nozione di compassione è attualmente applicata con riguardo agli animali da compagnia, rispetto ai quali è usuale, e ritenuta espressione di civiltà, la pratica di determinarne farmacologicamente la morte in caso di malattie non curabili”, mentre “nei confronti degli esseri umani operano i principi espressi dalla Carta costituzionale, finalizzati alla solidarietà e alla tutela della salute”.
    Secondo i giudici, invece, è questione “del tutto distinta” quella del “dibattito culturale sui limiti al trattamento di fine vita e sul rilievo del consenso del malato, fondato sul principio costituzionale del divieto di trattamenti sanitari obbligatori”.