Home SPETTACOLI Livia Granati: le Sabine, donne di razza

    Livia Granati: le Sabine, donne di razza

    Senza scomodare ‘il mito’ che muove da Eva verso Venere, basterebbe citare soltanto Cleopatra, Anna Bolena, Giovanna D’Arco, Caterina De’ Medici, Maria Teresa d’Austria, Frida Kahlo, Marie Curie, Tina Modotti, Rosa Park, Coco Chanel, Hedy Lamarr, Rita Levi Montalcini, Fernanda Pivano, Madre Teresa, o vere proprie icone come Jacqueline Kennedy, Marylin Monroe, o Lady Diana.

    Solo qualche nome per dare un’idea di cosa le donne abbiano rappresentato – continuando a farlo – nella storia del mondo. ‘Caratterizzate’ o peggio, generalizzate all’interno di uno stereotipo culturale, non privo di pregiudizio, spesso (complice l’eterno complesso edipico che attanaglia l’uomo) sono state ‘esorcizzate’ e quindi risolte come un’eccezione. Basti pensare al mito delle Amazzoni, alle Zarine, o alle (per necessità) brigantesse ciociare associate alle Drude. Ma già nelle prime decadi seguenti all’Anno Zero, Maria in testa, la donna rappresentava il fulcro centrale intorno al quale costruire la potenza dell’uomo. Se nella letteratura generale all’origine della conquista si opponevano necessità dispotiche o peggio, esigenze ‘fisiche’, in realtà la storia ci ha insegnato che per forza di cose, dietro un grande uomo c’è sempre stata una grande donna.

    Il Ratto delle Sabine

    Oggi alla donna è finalmente riconosciuto il suo indiscutibile status di ‘centralità‘ rispetto alla società, così come è innegabile la sua straordinaria capacità di gestione relazionale che, senza intaccarne minimamente l’autostima, le consente di essere madre, moglie, amica, lavoratrice e casalinga in un’unica dimensione! Ma affinché questi ‘super poteri’ insiti in una natura ‘di specie’ (genetica), le fossero riconosciuti – e soprattutto, accettati – dagli uomini, sono dovuti passare millenni, fiumi di sangue, e milioni di libri.

    La donna divenne ‘oggetto’ – o meglio, venne squalificata come tale – nel momento in cui l’uomo scoprì di averne un disperato bisogno per l’affermazione, sia fisica che psicologica,  e l’attuazione della sua stessa ragion d’essere. Senza le donne non c’era la possibilità di procreare, crescere di misura e quindi diventare forza. Un problema che assillò Romolo (intorno al 753 a.C.), trovatosi a dover gestire una città destinata all’estinzione. Roma necessitava di un’organizzazione all’altezza, con numerosi abitanti, un saldo esercito, e la capacità non solo di difendere il territorio, ma anche di conquistarne altri.
    Così il primo Re dell’Urbe architettò uno stratagemma per ‘assicurare’ ai suoi uomini quante più donne possibile per riprodursi. Incassato ‘obtorto collo’ il secco no giunto dalle vicine popolazioni sabine a ‘concorrere’ allo sviluppo della città mediante ‘l’offerta e la diponibilità’ di giovani donne, annunciò di voler sancire la pace dopo l’incidente diplomatico, allestendo dei giochi solenni da offrire al dio Conso. Chiamata Consualia, come previsto la manifestazione richiamò un gran numero di popolazioni vicine.
    Giunto l’ultimo giorno dei festeggiamenti, seguendo un piano studiato minuziosamente, Romolo diede il segnale ed i suoi uomini si avventarono sulle donne e le giovani, ‘monitorate’ nei giorni precedenti. Questo perché i romani cercarono di ridurre al minimo il danno ‘mirando’ soltanto a quelle che oggi definiamo ‘single’, e vergini, tanto che l’unica donna ‘impegnata’ – in quanto promessa, e figlia del Re dei Sabini (rapita erroneamente), passò alla storia con il nome di Ersilia… perché poi si unì proprio a Romolo.
    Ovviamente non è chiaro il numero delle fanciulle rapite, Plutarco scrisse di circa 800. Fatto sta che in città scoppiò il finimondo, e gli uomini dei vicini popoli ‘ospitati’, indeboliti dai bagordi per i festeggiamenti, furono costretti a fuggire. Tecnicamente fu un vero e proprio rapimento, ma non vi fu violenza o sottomissione. Il Re spiegò alle donne il ‘bisogno’ della città e chiese loro di divenire cittadine romane, con la conseguente acquisizione dei pieni diritti civili e, soprattutto, di proprietà. Intanto, dopo aver rifiutato anch’essi di divenire romani, i popoli che cercarono vendetta per il Ratto vennero affrontati e sconfitti dai romani. I Sabini presero tempo, in realtà stavolta erano loro ad avere un preciso piano in mente. Attraverso quello che poi passò alla storia come il tradimento di Tarpeia (che diede poi il nome alla famigerata Rupe), che spalancò loro le porte della città, i Sabini entrarono decisi a ‘farsi giustizia’. Ne seguì una violentissima battaglia. A quel punto le Sabine rapite – ma ormai romane – guidate da Ersilia si posero tra i due eserciti in lotta, costringendoli a fermarsi. Un gesto eroico e saggio che già allora segnò il corso della donna nella storia.
    Romani e Sabini giunsero così ad un accordo di pace sulla via che li divideva, quindi denominata ‘Sacra‘ che, successivamente, quando fu ampliata fino ad Ascoli – dove si importava il sale – divenne l’attuale via Salaria. Romolo ed i romani da una parte, e Tito Tazio con i Curiti dall’altra, confluirono quindi in un’unica società: quella romana. Ed i Sabini che decisero di stabilirsi in città vennero omaggiati col nome di Quiriti, perché a loro fu destinata l’area del colle Quirinale.

    Il ‘(ri)scatto’ delle Sabine di Livia Granati

    Una storia crudele ma avvincente, quella legato al famoso Ratto, che se storicamente concorre a nobilitare le mira espansionistiche dei romani, dall’altra spiega eloquentemente il ‘peso’ avuto dalle donne nella questione. Dunque, quella del Ratto delle Sabine, spiega Livia Granati, colta artista votata alla fotografia, “è innanzitutto una storia d’amore e di coraggio, che vede come protagonista indiscussa proprio Ersilia. Davanti al bivio della morte, postagli dal marito e dal padre, si ribella attraverso la bellezza, la saggezza e l’amore, scegliendo di vivere in pace”. Una storia che Livia, in quanto sabina doc, sente sulla sua pelle, e per questo ha deciso di partire proprio dal simbolico soggetto ‘del mitico Ratto’, per spiegare il suo credo fotografico, lasciando però modo a chiunque si pone davanti alle sue opere, di esercitare una libera interpretazione dei soggetti da lei esposti .
    In questi giorni infatti Livia ha inaugurato una bellissima ed interessante personale proprio intitolata alle donne Sabine, caratterizzandola proprio con quella peculiarità che ne ha fatto un preciso riferimento storico e culturale: ‘Bellezza e Ribellione‘.

    Le Sabine tra virtù morali e qualità estetiche

    Dislocata all’interno della suggestiva chiesa sconsacrata di San Martino, a Monteflavio (nel cuore del Parco Naturale dei Monti Lucretili), la mostra è articolata da ritratti di figure femminili, appartenenti proprio a questa terra, la terra delle belle e leggendarie Sabine. Attraverso gli attenti ed introspettivi scatti fotografici, la Granati, con estrema delicatezza ci restituisce le varie età di una donna, caratterizzate da giochi chiaro-scurali, che enfatizzano i lineamenti dei volti. I pochi e simbolici oggetti presenti in alcune di esse, invece, adornano e delineano le loro personalità.
    L’esperienza da storica dell’arte e l’occhio da pittrice spingono Livia in direzione di un linguaggio fotografico, capace di cogliere quelle virtú morali e qualità estetiche, capaci di rivelare quelle sorprendenti sfaccettature che fanno della donna una creatura così misteriosa. Utilizzando il fascino delle donne Sabine come soggetto, e l’arte della fotografia come veicolo, la giovane fotografa ‘sfida’ così l’osservatore attraverso un messaggio nemmeno troppo velato: ogni donna, dalla più tenera età fino alla piú tarda, ha la sua Bellezza, la quale ‘abbellisce’ il mondo e lo fa proprio attraverso la sua forma di Ribellione più sublime…l’Arte!
    La Mostra intitolata alle Sabine è visibile fino a domenica 7 luglio a Monteflavio, nell’ambito del contest ‘Strange Days Festival’.
    Max