Sia nostra la roba di Cosa Nostra di Gianmarco Chilelli

    Oggi il presidente della Commissione parlamentare Antimafia Rosy Bindi ha aperto il seminario riguardante la riforma del Codice Antimafia sottolineando, oltre al grande lavoro che resta da fare per debellare la piaga delle mafie, la problematicità della gestione e destinazione dei beni, ottenuti con i proventi delle attività illecite, che vengono confiscati. “I beni sottratti alle mafie – ha chiarito Bindi – devono tornare alla comunità ed essere strumento di giustizia e di crescita”. In tal senso si era pronunciato lo scorso sei dicembre anche il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, flagello della camorra negli anni ‘80 e ‘90, affermando che -la gestione efficiente ed efficace dei beni confiscati alla mafia è la sfida che ci attende e che dobbiamo assolutamente vincere-. Il rinnovamento nelle modalità di gestione dei beni deve, secondo buona parte degli addetti ai lavori, allontanarsi sempre più dalla sola vendita, dal momento che molto spesso le aste vengono pilotate o più semplicemente vinte dai mafiosi poiché – la mafia- ricordava Giancarlo Caselli lo scorso sei dicembre a Milano – gode di una liquidità economica straordinaria-. Il principio che sottende alla scelta di mettere all’asta i beni è quello del bisogno dello stato di far cassa, un po’ lo stesso dello scudo fiscale, che, invece di combattere l’evasione, ne fa rientrare parte pur di ottenere cifre più o meno significative, sicuramente minori di quelle che si otterrebbero con una efficiente lotta all’evasione. Infatti è molto più efficace utilizzare i beni di qualsivoglia genere per creare benefici alla popolazione che abita un certo territorio piuttosto che ai bilanci delle amministrazioni, in modo da eliminare le condizioni di povertà e degrado in cui la stessa criminalità organizzata affonda le proprie salde radici. Prosegue proprio in questa direzione l’intervento del presidente Bindi, che afferma “Ci sono troppi appartamenti che non entrano nella disponibilità degli enti locali per farne case per la popolazione, troppi terreni incolti che non aiutano a superare la crisi, troppe imprese che vedono bloccato il loro lavoro e quindi quello dei loro occupati”. Un punto cruciale per dirimere questa criticità è, sempre nelle parole di Rosy Bindi, la riforma dell’ ANBSC, Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Il rinnovamento deve essere repentino e deve tener conto del fatto che “servono professionalità manageriali, strumenti più adeguati per vincere questa sfida, la sede va spostata a Roma e deve passare dalla competenza del ministero dell’Interno alla presidenza del Consiglio”. Impossibile esimersi per il presidente Bindi dall’ auspicare una gestione rinnovata ma soprattutto libera dalla piaga dei conflitti di interessi “che anche ultimamente si sono profilati”, poiché quando si parla di confische ala criminalità organizzata ci si sta riferendo, secondo l’ultima stima disponibile del 2013, a 12.944 beni fra immobili e aziende. Essi sono distribuiti in maniera disomogenea su tutto il Paese, il triste primato con 5.515 beni spetta alla Sicilia, seguita a grande distanza da Campania (1918), Calabria (1811), Lombardia (1186), Puglia (1126) e Lazio (645), quest’ultimo dato probabilmente in crescita dopo gli sviluppi giudiziari che riguarderanno Mafia Capitale. Per quanto riguarda le aziende alcune volte si riesce a non chiuderle o venderle tenendole attive, e molto spesso con il bilancio più che fiorente, sotto l’amministrazione dell’ ANBSC, per gli immobili invece l’iter spesso sfocia, quando non li si vende con le problematiche già citate, nella situazione di abbandono o mancato adattamento a nuove finalità. Acuire la lotta alla criminalità organizzata, che in Italia costa miliardi di euro di evasione, di degrado e innumerevoli vite umane, è dunque una priorità per la ripresa economica, civile e sociale del Paese.