Caso Cucchi, intercettazione shock di uno dei carabinieri imputati: “Magari morisse”

    Dettagli scioccanti quelli emersi nella giornata di ieri nell’ambito del processo per la morte di Stefano Cucchi. Sarebbero state intercettate alcune dichiarazioni telefoniche di uno dei cinque carabinieri imputati, Vincenzo Nicolardi, che il giorno successivo all’arresto del giovane geometra romano si esprimeva così: “Magari morisse, li mortacci sua”. I dettagli sono stati resi noti attraverso gli atti depositati dal pm Giovanni Musarò; atti nei quali vengono riportate intercettazioni di comunicazioni radiofoniche e telefoniche avvenute tre le 3 e le 7 del mattino del 16 ottobre del 2009, tra il capoturno della centrale operativa del comando provinciale e un carabiniere la cui voce è stata ricondotta dagli inquirenti a quella di Nicolardi, oggi a processo per calunnia.
    Nella conversazione si fa riferimento alle condizioni di salute di Cucchi, arrestato la sera prima: “Mi ha chiamato Tor Sapienza – dice il capoturno della centrale operativa -. Lì c’è un detenuto dell’Appia, non so quando ce lo avete portato, se stanotte o se ieri. E’ detenuto in cella e all’ospedale non può andare per fatti suoi”. Il carabiniere risponde: “E’ da oggi pomeriggio che noi stiamo sbattendo con questo qua”.
    Non solo. Sempre secondo quanto emerge dalle carte depositate oggi dall’accusa alla I Corte d’Assise del Tribunale di Roma, otto giorni dopo la morte di Stefano Cucchi, il 30 ottobre 2009, ci fu una riunione sulla linea degli “alcolisti anonimi” al comando provinciale di Roma, convocata dall’allora comandante, generale Vittorio Tomasone, con i vari carabinieri coinvolti a vario titolo nella vicenda della morte del geometra romano. Lo afferma Massimiliano Colombo, comandante della stazione dei Carabinieri di Tor Sapienza, intercettato mentre parla con il fratello Fabio.
    “Il 30 ottobre, la mattina ero di pattuglia con Colicchio. Soligo mi chiama, mi chiede: ’Fammi subito un appunto perché poi dobbiamo andare al Comando provinciale perché siamo stati tutti convocati, ’cioè quelli dall’arresto di Cucchi a chi lo aveva tenuto in camera di sicurezza. Tu che sei il comandante della stazione, anche se non hai fatto nulla, il comandante della compagnia Casilina, il maggiore Soligo, comandante di Montesacro, il comandante del Gruppo Roma, stavamo tutti quanti. Ci hanno convocato perché all’epoca il generale Tomasone, che era il comandante provinciale, voleva sentire tutti quanti. Abbiamo fatto tipo, hai visto ’gli alcolisti anonimi’ che si riuniscono intorno ad un tavolo e ognuno racconta la sua esperienza, così abbiamo fatto noi quel giorno dove però io non ho preso parola perché non avevo fatto nessun atto e non avevo fatto nulla”. Colombo ha chiarito la vicenda anche durante l’interrogatorio tenuto la scorsa settimana davanti al pm Giovanni Musarò. A quella riunione presero parte anche “il comandate del Gruppo Roma, Alessandro Casarsa, il comandate della compagnia Montesacro, Luciano Soligo, il comandante di Casilina maggiore Unali, il maresciallo Mandolini e tre-quattro carabinieri della stazione Appia. Da una parte c’erano il generale Tomasone e il colonello Casarsa, mentre gli altri erano tutti dall’altra parte. Ognuno a turno si alzava in piedi e parlava spiegando il ruolo che avevano avuto nella vicenda Cucchi.
    Ricordo che uno dei carabinieri di Appia, che aveva partecipato all’arresto, aveva un eloquio poco fluido, non era molto chiaro. Un paio di volte intervenne il maresciallo Mandolini per integrare cosa stava dicendo e per spiegare meglio, come se fosse un interprete. Ad un certo punto Tomasone zittì Mandolini dicendogli che il carabiniere doveva esprimersi con le sue parole perché – ha concluso Colombo – se non fosse stato in grado di spiegarsi con un superiore certamente non si sarebbe spiegato con un magistrato”.
    “Visitai Stefano Cucchi due volte: aveva una frattura vertebrale e gli proposi di rimanere ricoverato da noi. Lui rifiutò dicendo “Non voglio ricoverami, preferisco ritornare a Regina Coeli dove c’è il medico di cui mi fido che sicuramente mi dà più giorni”: nel corso del processo è stato ascoltato anche Fabrizio Farina, medico del pronto soccorso del Fatebenefratelli. Fu lui a visitare il giovane due volte, il 16 ottobre 2009 e il giorno successivo. Il primo intervento si concluse con Cucchi che, dopo aver rifiutato il ricovero, “si alzò e venne verso di me a firmare il foglio di rifiuto ricovero”. Cosa diversa il giorno successivo: “Non riusciva a muoversi”.
    Circostanza, questa, confermata anche dal dottor Claudio Bastianelli, anch’egli del pronto soccorso del Fatebenefratelli, che accolse Cucchi in occasione del secondo ’accesso’ in ospedale. “Arrivò e mi disse che voleva essere ricoverato; aveva cambiato idea perché aveva dolore in sede lombare. Gli chiesi com’era accaduto e mi rispose che era scivolato per una caduta accidentale. Ebbi io l’idea di trasferirlo all’ospedale Pertini perché da noi non c’era posto. Per questo attivai la procedura di ricerca del posto letto”.
    “Siamo basiti, scioccati, non sappiamo più cosa pensare. Quello che ci fa veramente molto male e arrabbiare è che da quest’inchiesta emergono fatti e comportamenti esecrabili, indegni per appartenenti all’Arma dei Carabinieri, di cui si sono rese responsabili persone che non erano coinvolte nell’arresto di Stefano Cucchi né direttamente coinvolte nella sua morte”. Così l’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi, intervistato su Radio 24. “Io e Ilaria abbiamo preso atto che per i Carabinieri i problemi sono Casamassima, Rosati e Tedesco, noi abbiamo fiducia nell’Arma dei Carabinieri, ma qui emerge un quadro desolante ed esiste un grave problema da risolvere”.
    Intanto un altro ufficiale dei carabinieri è stato iscritto nel registro degli indagati: si tratta del colonnello Francesco Cavallo, all’epoca dei fatti numero due del gruppo Roma. Prossima udienza, il 7 novembre. Continueranno le audizioni testimoniali, e non sono esclusi ulteriori colpi di scena.