I Kings of Convenience al Castello Svevo – I re dell’estate calabrese – di Lucia Catananti

    King of Convenience 15 anni di carriera

    Il 22 luglio al Castello Svevo di Cosenza, il duo norvegese dei Kings of Convenience ha celebrato i 15 anni di carriera.
    Erlend Øye e Eirik Glambek Bøe, nati nella suggestiva e quieta Bergen, arrivano in Italia per un tour che ha previsto sei date e per la prima volta in Calabria. Opposti e complementari, sicuramente hanno in comune la tranquillità di passeggiare e di salutare, con una confidenza mai esagerata, chi è lì per loro. Calabria, Campania, Puglia, Sicilia, e non soltanto, riempiono i posti dell’incantevole castello all’aperto, situato su uno dei sette colli della città.
    ’’Magari i cellulari li guardiamo dopo e ci concentriamo su di loro…’’, è la frase che si sente al microfono, tra il benvenuto e le informazioni tecniche, ed è la frase che più si addice al duo che attira il silenzio e richiama gli occhi che sono catapultati in un’intimità che fa sorridere e anche piangere.

    Giampaolo Calabrese, di Archimedia Produzioni, società organizzatrice dell’evento, esprime la gioia di ospitare un concerto internazionale all’interno del Castello Svevo, antico maniero federiciano dell’anno 1000, ristrutturato da poco meno di un anno. E anche la gioia di ospitare proprio dei cantanti del Nord Europa perché ricorda, appunto, la costruzione del posto che è legata a Federico II di Svevia.
    E’ uno spettacolo contenuto nella rassegna estiva ’’Il bene, gli assalti e altri merletti’’, proprio perché la contaminazione è il modo migliore per condividere e usufruire di questi posti.
    A maggior ragione con la musica, perché è l’unico modo per non stare troppo impostati, in punta di piedi. Perchè, sostanzialmente, bisogna anche poter volare e godere della bellezza, non soltanto farla e rispettarla.

    Le parole sembrano finalmente finire e un <<ciao a tutti>> che vuole essere il più possibile simile all’italiano, ma che mantiene il suo accento, apre il concerto.
    Protezione e sensibilità sono le prime note che volano su nell’aria. Con la sensazione di essere chiusi in una bolla di sapone, con la prima canzone hanno già vinto e al contrario del suo titolo, già dall’inizio si prospetta una vincita totale della serata. La canzone è ’’Winning a battle, losing the war’’.
    Col sapore di un amore amaro sulle labbra, si continua con ’’Toxic Girl’’ e prima di ’’Singing softly to me’’ accompagnata dallo schioccare delle dita, il particolare e scherzoso del duo, Erlend Øye, fa da padrone di casa indicando i posti vuoti a chi vede in piedi.
    D’altronde è proprio l’aria di familiarità e leggerezza che è protagonista in compagnia loro e della loro musica. 
    Adesso tocca alle melodie ’’The girl from back then’’ e ’’I don’t know what I can save you from.’’
    Poi è la saggezza a farsi sentire di più, perché la prossima canzone spiega chiaramente che il miglior modo per imparare è fallire. E la canzone è, appunto, ’’Failure’’.
    Si ritorna indietro, all’inizio della loro carriera, con una delle prime canzoni scritte, ’’The weight of my words’’. Voci sovrapposte a brividi che la serata confonde con il leggero vento.
    Un vento che ricopre il meraviglioso panorama del castello tra le stelle e le montagne e che fino a poco prima i due norvegesi scrutavano, mentre da giù i fans impazienti li seguivano.
    La prossima canzone è estratta dal secondo album, Riot on an Empty Street, ed è il regalo di un’altra perla: ’’Love is no big truth’’.
    Dall’album Declaration of Dependence, invece, arriva ’’Second to Numb’’. E con un distacco di qualche minuto, con la sensazione di starli ad ascoltare da un cd per la perfezione delle voci, ’’24-25’’ riconduce in un sogno ad occhi aperti.

    Un sogno che continua e stupisce con la voce del solo Erlend che, trasferitosi in Sicilia con la mamma ormai da anni, con un italiano quasi perfetto apre a parole le prossime note.
    E’ un pezzo non scritto da loro, ma è importante perché ’’era il favorito della mia mamma’’, conclude. La canzone è ’’Thirteen’’ della band statunitense Big Star.
    L’altra voce, il compagno Eirik, si sposta a fianco del palco e interviene soltanto a fine canzone. Guarda tutto da più lontano eppure è la vicinanza più equilibrata, quella che non può fare nient’altro se non esserci, quando il dolore è troppo intimo da consolare.
    Ed è la conferma dell’intesa e della semplicità delle loro voci insieme. Uno di fronte all’altro, spesso, durante le canzoni.

    Ma le prossime ’’Know-How’’ e ’’Mrs. Cold’’ riescono a far ritornare quasi con i piedi per terra dal momento musicale più emozionante e disarmante della serata.
    Sempre dall’album Declaration of Dependence, ma con dei volontari davanti al palco per muoversi con loro a ritmo, si canta ’’Boat Behind’’. Da pochi volontari, il sottopalco si trasforma in un pubblico in piedi che rimane fino alle ultime canzoni: ’’Misread’’ e ringraziando scherzosamente Federico II per l’ospitalità in casa propria, si balla con ’’I’d rather dance with you’’ e, dopo una non tanto breve uscita, rientrano con la nostalgica ’’Homesick’’.

    Ma è l’album Quiet Is the New Loud, che ha dato inizio a tutto, quello che ci accompagna alla chiusura con ’’Little kids’’. E, riprendendo l’ultima frase della canzone, ’’aprendo gli occhi su una vita che è un vuoto senza amore’’, si può dire ugualmente che è un vuoto senza la (loro) musica, che riesce a riempirla perfettamente.