Trattativa Stato-mafia, nuova udienza – di Francesca Maiezza

    NAPOLITANORiprende domani il processo per la trattativa Stato–mafia con la testimonianza di Vincenzo Sinacori, ex fedelissimo del superlatitante Matteo Messina Denaro. Ma da dove nasce questo processo e, soprattutto, come si è arrivati a chiedere che venga ascoltato anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano? Tutto ha inizio negli anni Novanta, dall’omicidio del parlamentare Salvo Lima il 12 marzo del 1992 fino al fallito attentato al giornalista Maurizio Costanzo il 14 maggio 1993, passando per la strage di Capaci e di via D’Amelio del 1992.   Nel gennaio di quello stesso anno la Cassazione emette la sentenza del “Maxiprocesso” condannando Totò Riina e altri capi mafiosi all’ergastolo con l’applicazione dell’articolo 41bis, la legge che prevede un carcere duro e d’isolamento per i detenuti appartenenti a organizzazioni criminali.  L’ipotesi che i magistrati della procura di Palermo muovono è che dal 1992 fino ad oggi lo Stato abbia cercato di raggiungere un accordo con Cosa Nostra per porre fine alle stragi in cambio di un’attenuazione delle misure detentive dell’articolo 41bis.  Dalle testimonianze di alcuni pentiti risulta che, nel 1995, il boss Ilardo avrebbe rivelato ad un colonnello dei Ros di aver incontrato Provenzano, in provincia di Palermo, ma il comandante dei Ros Mario Mori non fornì gli uomini e i mezzi adeguati per l’arresto. L’anno dopo Ilardo venne ucciso a causa della sua collaborazione con la giustizia e Mori venne accusato di favoreggiamento nei confronti di Cosa Nostra. 

    Ad oggi la procura generale di Palermo, all’apertura del processo d’appello per la mancata cattura di Provenzano, ha chiesto la riapertura del caso e l’acquisizione di nuovi documenti perché durante il primo processo “non si era a conoscenza di alcuni fatti accertati solo successivamente”. Attualmente il processo è ancora in corso, verranno esaminate le testimonianze dei pentiti e il 2 ottobre ci sarà la prima udienza. Nel processo sono coinvolti i boss mafiosi Riina, Provenzano, Cinà, Bagarella, gli ufficiali delle forze dell’ordine Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno e alcuni politici tra i quali l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, che è stato anche vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Calogero Mannino, ex ministro democristiano, e Marcello Dell’Utri, ex senatore del PdL.  A questi nomi si devono aggiungere quello di Giovanni Brusca e Massimo Ciancimino. Brusca fu il primo a parlare del ‘papello’, un documento consegnato da Ciancimino che conta dodici richieste da parte di Cosa Nostra allo Stato, tra cui le rettifica della sentenza del Maxiprocesso e l’annullamento dell’articolo 41bis. Tra il 2012 e il 2013, Nicola Mancino fece numerose telefonate a Loris D’Ambrosio, consigliere di Giorgio Napolitano, per l’attivazione del programma antimafia nazionale. Vi furono telefonate anche direttamente con il presidente della Repubblica ed intercettando Mancino, la procura di Palermo intercettò anche Napolitano. Si pose subito il problema se le conversazioni del presidente in carica potessero essere intercettate o se dovessero essere subito eliminate, ma la Corte costituzionale ordinò la distruzione delle intercettazioni. I magistrati di Palermo continuarono ad indagare a causa di alcune frasi scritte da D’Ambrosio in una lettera: “Ho il timore di essere stato considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi, e ciò nel periodo fra il 1989 e il 1993”. Napolitano è quindi chiamato a testimoniare proprio per riferire di queste frasi. La decisione viene presa, il 25 settembre, al termine dell’udienza in cui l’ex segretario Dc De Mita si confronta duramente con i pm di Palermo. “Prendo atto dell’odierna ordinanza della Corte d’Assise di Palermo – ha dichiarato il capo dello Stato -. Non ho alcuna difficoltà a rendere al più presto testimonianza, secondo modalità da definire, sulle circostanze oggetto del capitolo di prova ammesso”. Lo scorso novembre, Napolitano aveva inviato una lettera al presidente della Corte nella quale diceva di non aver avuto “ragguagli” o “specificazioni” da D’Ambrosio riguardo ai quei timori e, pertanto, di non avere “da riferire alcuna conoscenza utile al processo”. Nonostante ciò il collegio ha ritenuto necessaria la testimonianza. Nei prossimi giorni la corte dovrà concordare con il Quirinale la data della testimonianza che verrà concessa alla sola presenza dei pm e dei difensori, concorde all’articolo 205 di procedura penale che prevede tassativamente che il capo dello Stato debba essere sentito dai magistrati nel luogo dove svolge le sue funzioni, quindi il Quirinale, a parte chiuse. La corte motiva la decisione di far testimoniare Napolitano asserendo che non si possa escludere il diritto delle parti di chiamare un testimone su fatti importanti per il processo solo perché il suddetto esclude di essere informato sui fatti stessi. E continua “il dato negativo, riguardo alla conoscenza di determinati fatti, potrebbe assumere una valenza non necessariamente neutra nel contesto delle altre acquisizioni probatorie e della loro valutazione interpretativa”.