Bolsonaro, il ‘Trump’ brasiliano che potrebbe giovare agli Usa

    Jair Bolsonaro, che ha stravinto la prima tornata elettorale delle elezioni brasiliane, potrebbe cambiare lo scenario geopolitico sudamericano. Una sua vittoria risulterebbe strategica per gli Stati Uniti, che segnerebbero un punto a favore nella lotta commerciale contro la Cina. L’ondata ultra-conservatrice che provocherebbe la vittoria del ‘Trump tropicale’, come è stato soprannominato Bolsonaro dai media, rafforzerebbe i rapporti Usa-Brasile. Però bisogna capire quanto questo possa favorire il vero Trump, per cui un’eventuale ascesa di Bolsonaro potrebbe mettere un freno all’invasione dell’industrie cinesi in quel lato del Sud America, dove, secondo la dottrina Monroe, gli Usa hanno tutto il diritto di manifestare la propria autorità. L’assonanza Trump-Bolsonaro non la si riscontra solo nelle movenze o negli atteggiamenti, ma anche nelle proposte politiche. Il figlio dell’ultraconservatore brasilianoha incontrato l’ex consigliere della Casa Bianca Steve Bannon, commentando poi su twitter che lui e Bannon hanno ‘la stessa visione del mondo’. Un punto di vista egualitario nei termini di attuazione di una politica sovranista, populista e no-global. Che diventi presidente o meno, Bolsonaro ha messo in evidenza come queste spinte neo-conservatrici siano diventate una realtà in Brasile, dopo l’arresto dell’ex-presidente Lula per corruzione.  Ma il sentimento nazionalista nel Sud-America lo si registra oramai da tempo, prima ancora delle elezioni statunitensi del 2016.  Il tutto era cominciato con la vittoria di Mauricio Macri alle presidenziali argentine. Macrì, nel 2016, aveva appoggiato Hillary Clinton, ma aveva dichiarato di conoscere Trump per questioni lavorative, prima ancora che diventasse presidente. Quando l’ex imprenditore Usa è salito alla Casa Bianca, Macrì ha ripreso un buon rapporto interpersonale con lui. Altri punti a favore del governo Trump sono stati l’elezione di Sebastian Piñera in Cile, e l’avvicendamento prima con Kuczynski, poi con Martin Vizcarra in Perù. In Colombia ha vinto l’alleato Duque, e pure i primi contatti col populista messicano Lopez Obrador sono andati bene, a partire dall’intesa sul trattato per rimpiazzare il Nafta. Washington spera che i nuovi governi possano ostacolare l’influenza di Pechino nel continente. A fronte di queste opportunità, però, Trump finora ha dimostrato una sostanziale disattenzione verso l’America Latina, a parte il problema dell’immigrazione e del muro lungo il confine col Messico, e le dispute aperte o riaperte con Cuba, Venezuela e Nicaragua. Ad aprile il presidente ha annullato la visita in Perù per il Vertice delle Americhe, perché doveva gestire la crisi in Siria, e a meno di sorprese farà il suo primo viaggio nella regione solo a fine novembre, per partecipare al G20 in Argentina e poi visitare la Colombia. L’emergenza più grave in corso è certamente quella venezuelana, dove Trump ha ventilato anche l’ipotesi di rovesciare il regime di Maduro, ma la sfida di lungo termine più importante è quella con la Cina. Dal 2005 ad oggi, Pechino ha investito in America Latina 150 miliardi di dollari, inclusi i fondi per finanziare il canale del Nicaragua alternativo a quello di Panama, e la ferrovia che dovrebbe collegare la costa atlantica del Brasile a quella pacifica del Perù. Washington, invece, ha tagliato gli aiuti all’intera regione. La Repubblica popolare è diventata il principale partner commerciale di molti Paesi dell’area, a cominciare dal Cile, e la guerra dei dazi rischia di penalizzarli fortemente, mentre il ritiro degli Stati Uniti dal trattato commerciale TPP ha creato un vuoto nella regione del Pacifico sudamericano che Xi sta cercando di occupare. Che Bolsonaro vinca o no, la tendenza degli ultimi anni offrirebbe a Trump un’apertura per tornare in America Latina e contrastare la Cina. A patto di accorgersene e di volerlo fare.