Chieti, muore a 26 anni per anoressia: la Asl le aveva negato le cure fuori regione

    Un nuovo tragico caso di inerzia sanitaria e stavolta a farne le spese è una giovane ragazza di 26 anni. Maria Elena, questo il suo nome, pesava 28 kg ed era malata di anoressia. Per uscire dalla malattia, aveva urgente bisogno di cure specializzate, ma è morta aspettando il via libera per ricoverarsi fuori regione, in una struttura appositamente dedicata ai disturbi alimentari. Proprio sette mesi prima era stata costretta ad abbandonare le cure in Toscana perché l’azienda sanitaria di Chieti, suo comune di residenza, non aveva inviato la proroga per continuare il trattamento. Ora il fratello, Alessandro Pompilio, non si dà pace e chiede giustizia: “Voleva farsi aiutare ma glielo hanno impedito”.

    Maria Elena era malata da quando aveva 13 anni e “aveva sempre boicottato ogni tentativo di cura, ma ora aveva deciso di provarci”, spiega il fratello Alessandro. Così, dopo anni di ricoveri e riabilitazioni finite male, i due si erano rivolti al centro Madre Cabrini di Pontremoli, in Toscana. Già quella volta i problemi non erano stati pochi. “Non volevano firmarci il nulla osta. Ci dissero che il problema erano i soldi, perché i ricoveri fuori regione costano di più”.  La Asl di Lanciano Vasto Chieti suggeriva un centro abruzzese che però non è riconosciuto dal ministero della Salute per la cura di questa patologia. “Alla fine li avevamo convinti spiegando che un giorno di degenza in Toscana costava meno di uno a Chieti”.

    A Pontremoli Maria Elena aveva passato il primo mese in residenza, poi la struttura aveva deciso di trasferirla all’ospedale di Massa. L’obiettivo era farle acquistare un po’ di peso per poi riammetterla al centro, dove avevano già preparato una terapia personalizzata. Ma non c’è stato il tempo: “I due mesi concessi erano scaduti e dall’Abruzzo non hanno inviato la proroga, non hanno risposto”, dice Alessandro. Così la ragazza è stata costretta a tornare a casa.
    “Pesava 28 kg e l’ho dovuta portare via dall’ospedale – racconta ancora Alessandro – Arrivato a Chieti sono corso al pronto soccorso pregando che la ricoverassero”. Maria Elena viene ricoverata, ma dopo un paio di giorni la dimettono. “Ancora non capisco perché – si tormenta il fratello –. Ricordo quando chiesi ai medici se mi potevano assicurare che mia sorella era fuori pericolo e risposero di no”.
    A casa la situazione era ingestibile, l’aiuto messo a disposizione prevedeva solo un’assistenza domiciliare. “Era alimentata con il sondino nasogastrico – spiega Alessandro–. Ma stare lì non la aiutava: svuotava le sacche dell’alimentazione per far vedere a chi controllava che la assumeva. La cosa assurda è che mia madre la assecondava”.
    Il fratello aveva capito che per aiutare Maria Elena a guarire, avrebbe dovuto portarla lontano da quella casa e da quell’ambiente. Così, insieme allo psicologo del centro di salute mentale, aveva fatto un altro tentativo con la Asl: aveva proposto un’altra struttura per il ricovero, sempre fuori regione e tra le migliori in Italia. Come soluzione temporanea, intanto, i due avevano fatto trasferire la giovane in un reparto di lungodegenza a Ortona.
    Dopo diversi giorni la Asl rispose che prima di autorizzare il ricovero extra regione si sarebbe dovuto sentire la struttura che è in Abruzzo: la stessa suggerita la prima volta, ma che non è accreditata dal ministero della Salute.  E mentre Alessandro combatteva contro la burocrazia, Maria Elena moriva, il primo agosto, per un’infezione partita da un ago che aveva al braccio, che le ha distrutto il cuore e provocato un grumo di sangue che ha raggiunto il cervello.
    Ad unirsi alla denuncia del fratello è Consult@ Noi, associazione nazionale dedicata ai disturbi alimentari, con una lettera indirizzata al ministro della Salute Giulia Grillo e alla dirigenza della Asl di Chieti. “Si chiamava Maria Elena – si legge nella missiva – ma poteva essere Francesca, Giulia o Caterina: è l’ennesimo caso di malasanità legato a questa malattia. Una storia che riguarda migliaia di pazienti che muoiono per aver avuto negata una proroga o per aver atteso mesi in liste d’attesa troppo lunghe perché non vi sono sufficienti luoghi di cura adeguati”.