Fuga dei dottorandi all’estero: uno su otto si trasferisce

    Si torna a parlare di fuga di cervelli. Tematica su cui si è discusso tanto, è vero, ma gli ultimi dati pubblicati dal Comitato per la valorizzazione del dottorato di ricerca, recuperati all’Istat, sono tutt’altro che confortanti. Al centro della questione gli studenti più formati, quelli che post-laurea hanno deciso di intraprendere un percorso di ricerca, i cosiddetti dottorandi insomma. Diecimila ogni anno (10.200 nel 2015, ultimo dato conosciuto) conseguono quel titolo, ma circa milletrecento tra loro abbandonano le strutture italiane e raggiungono università, centro studi, o ospedali all’estero. Dunque, il 12,9 per cento dei dottori di ricerca italiani lascia il Paese, uno su otto. Nelle Scienze fisiche ci abbandona un terzo: il 31,5 per cento. Nelle Scienze matematiche e informatiche un quinto: il 22 per cento. Il costo per la collettività è alto, a partire dalle spese sostenute dallo Stato per preparare i ricercatori.
    Ogni università investe, in media, 60 mila euro l’anno e la perdita del sistema accademico – vista la migrazione di massa – è di 72 milioni di euro. Se si aggiungono i costi dello Stato per formare un laureato e i costi di ricerca, l’ammanco nazionale sui migliori giovani intellettuali del Paese è pari a 250 milioni di euro l’anno. Si arriva a un miliardo di euro contando tutti i semplici graduati che hanno preso l’aereo subito dopo il diploma di laurea.
    Altri testi dicono, ancora, che un giovane ricercatore ha una produttività media di ventuno brevetti e questi equivalgono a 63 milioni di euro (148 milioni in una proiezione ventennale). Solo nel 2017, i migliori venti ricercatori italiani hanno depositato fuori dalla nazione otto scoperte come autori principali. Si tratta, in termini di ricavo, di 49 milioni di euro Se si considera la totalità dei brevetti a cui i venti “top scientists” fuggiti hanno contribuito come membri del team di lavoro, la cifra sale a 66 milioni.
    Oltre al danno economico, c’è un ovvio ritardo in termini di competitività del Paese, pronto a formare professionisti di alto livello che andranno a favorire lo sviluppo di altre nazioni. Il problema è reso più acuto dalla mancanza di un viaggio in direzione uguale e contraria: pochi dottori di ricerca stranieri si trasferiscono in Italia, l’offerta lavorativa nel nostro Paese non è competitiva. La Commissione europea ha evidenziato come il numero dei giovani italiani altamente qualificati emigrati all’estero sia cresciuto rapidamente dal 2010 in poi.
    L’osservatorio della Conferenza dei rettori delle università italiane (Crui) spiega che, in Italia, il 40 per cento delle aziende più innovative, quelle che hanno dedicato parte degli investimenti nei reparti ricerca e sviluppo, non ha inserito nel proprio organico figure professionali in possesso del titolo di Dottorato di ricerca. Secondo il report 2018 di AlmaLaurea sulla condizione occupazionale dei dottorati, solo l’11,4 per cento svolge la propria attività lavorativa nell’industria mentre l’84,5 è occupato nell’ambito accademico. Lo stesso ministro Marco Bussetti, annunciando la nascita della cabina di regia per la ricerca , ha chiesto una crescita dei dottorati industriali.?Il Comitato per la valorizzazione avanza una proposta – che poi è in linea con le indicazioni date dalla sua nascita – ispirandosi al progetto PhD ITalents finanziato dal ministero dell’Istruzione e allestito dalla stessa Conferenza dei rettori. Bene, quel progetto – pur criticato dalla Corte dei conti per la scarsa velocità della realizzazione – ha fin qui permesso a 136 dottori di ricerca di essere assunti in imprese italiane. Il progetto prevedeva, in sostanza, incentivi fiscali alle aziende della durata di tre anni, a scalare. Mario Murari, presidente del Comitato per la valorizzazione del Dottorato, dice: “Per cambiare la situazione è necessario stanziare fondi tali da cofinanziare le aziende italiane che assumono Dottori di ricerca. Questi incentivi devono avere come requisito un importo minimo lordo dello stipendio offerto per evitare sottopaghe e garantire la partecipazione solo delle aziende effettivamente interessate. Il progetto dovrebbe essere incentrato preferenzialmente sulle piccole e medie imprese italiane in cui il gap salariale tra neo-laureati e dottori di ricerca incide maggiormente nella scelta”.
    Si può ipotizzare un periodo limitato di incentivi fiscali “per favorire l’assunzione di personale altamente qualificato da parte delle imprese italiane e far apprezzare un titolo di studio ancora misconosciuto”. Domani il Comitato porterà le sue proposte di incentivi fiscali al viceministro (Ricerca e Università) Lorenzo  Fioramonti.