L’opera è sogno, afferma il regista Fabio Ceresa

    “Venire incontro alla aspettative del pubblico è un errore, i teatri d’opera devono fare cultura, e lo Stato deve sostenere l’arte e farla esprimere senza che questa debba dipendere troppo dallo sbigliettamento. Urge rappresentare sul palcoscenico quello che si può vedere solo lì, senza scimmiottare cinema o tv. Un cambio di scena a vista, ad esempio, si può apprezzare solo in uno spettacolo dal vivo. Anche i social possono servire per passare informazioni perché un’immagine vale più di mille parole, e io che tra gli amici virtuali ho molte persone digiune di opera lirica, trovo sempre sorprendente notare come soprattutto chi non vive il teatro ne sia affascinato”.
    Giustamente Fabio Ceresa, da attento regista quale è, totalmente all’opposto rispetto agli attuali stilemi che caratterizzano la gestione aziendale – e spesso anche ‘visiva – del teatro, ragione in termini ‘emozionali’, dove sono le suggestioni ad evocare e non l’oggettivtà. L’opera – ben spiega il 37enne, fresco della ’Dorilla in Tempe’ di Vivaldi – deve fare pensare ma anche sognare, per questo bisogna recuperare con orgoglio la nostra tradizione scenografica e di costumi e smetterla con gli allestimenti minimal in jeans e maglietta alla tedesca”. Per non parlare poi delle istituzioni culturali, sulle quali il giovane regista ha le idee più che chiare: ”I teatri devono fare cultura e non solo venire incontro alle aspettative del pubblico perché legati ai risultati del botteghino. L’arte e la cultura vanno sostenute dallo Stato”.
    Nel corso di una lunga intervista concessa e ben raccolta da Pippo Orlando, preparato cronista dell’agenzia di stampa AdnKronos, rivolgendosi al suo specifico mestiere, che ha maturato attraverso lunghe ed esaltanti esperienze (è passato anche per La Scala dal 2008 al 2014, ed ha affiancato registi del calibro di Luca Ronconi, Eimuntas Nekrosius, Deborah Warner, Patrice Chereau, e Peter Stein), Ceresa afferma con convinzione che “Non esiste un solo modo di fare regia d’opera, ogni regista ha il diritto e il dovere di portare la sua unicità e la sua lettura del capolavoro che mette in scena. Noi siamo chef e non cuochi. Portare il nostro mondo interiore nello spettacolo è fondamentale, altrimenti – saremmo di fronte a una messinscena computerizzata, uguale per tutti. Così come non c’è una maniera ’giusta’ di mettere in scena un capolavoro, ma c’è invece una moltitudine di individualità: ci sono Carsen, Wilson, McVicar e Pizzi. Il mio estro e la mia visione mi dicono che bisogna recuperare la grande tradizione italiana, immaginifica – aggiunge ancora l’esperto – della scenografia e del costume. Non capisco perché circa vent’anni fa si sia deciso che le regie si dovevano fare come nei teatri tedeschi: scene minimaliste e cantanti in jeans e maglietta. Una cosa che non condivido e che mi rievoca la frase profetica di Verdi quando disse di lasciare che i tedeschi facessero i tedeschi e gli italiani facessero gli italiani. Per me che sono italiano l’opera deve anche appagare gli occhi, deve fare pensare ma anche sognare”.
    Dal canto suo, aggiunge, in tal senso come non sottolineare quanto e come il regista Pier Luigi Pizzi ha dato del suo: “Credo sia il vero padre nobile della regia italiana, tutto quello che c’è oggi lo dobbiamo a lui. Nel suo allestimento di ’Morte a Venezia’ è bastata una gondola a rendere tutto l’immaginario. Lui ha il dono della sintesi, che è poi la cifra del teatro perché se voglio la verosimiglianza guardo la tv”. 
    M.