La camorra dietro il racket dei vestiti usati – di Ilaria Grimaldi

    questuraNon più o non solo traffico di stupefacenti, ma anche spaccio di vestiti usati. Quelli che normalmente finiscono nei cassonetti gialli, in teoria destinati ad opere di bene e che invece, venivano venduti a caro prezzo in particolare in Africa ed Europa dell’Est. Gli ultimi affari di una organizzazione che aveva al suo vertice il boss della camorra Pietro Cozzolino sono al centro dell’inchiesta della Squadra mobile di Roma guidata da Renato Cortese: quattordici persone accusate di traffico illecito di rifiuti e associazione per delinquere sono finiti agli arresti ieri mattina.
    La principale delle società finite nell’inchiesta, la B&D Technology fatturava 1.225.000 di euro per 3.190 tonnellate di vestiti usati. Mentre la cooperativa sociale «Lapemaia», nei soli primi otto mesi del 2012, hanno venduto all’estero 3.934.015 kg di abiti usati, fatturando quasi un milione di euro, (785.585,15) e incassandone in nero altri, 600mila. Cambiando costantemente i punti di raccolta e di stoccaggio dei vestiti, gli uomini di Cozzolino – esponente di un clan di Ercolano con un passato nel traffico di stupefacenti – riuscivano ad evitare di igienizzare e disinfettare gli abiti come sarebbe previsto. I tessuti a quel punto non potevano più essere riutilizzati in Italia ma finivano all’estero, in particolare in Ucraina e Tunisia.
    Un business milionario, secondo il gip Simonetta D’Alessandro, che ha firmato le misure restrittive. Ed è lo stesso giudice ad avanzare il sospetto che dietro il traffico dei vestiti ci sia Mafia Capitale, nella persona di Salvatore Buzzi. Il “ras” delle coop sociali, per il Gip, avrebbe ricompensato le due coop coinvolte nelle indagini poiché erano state escluse da un bando importante, quello per la raccolta del multimateriale per conto di Ama, facendo in modo che vincessero quello per la gestione degli abiti usati.


    «Chi vuole vincere non paga più, come un tempo, solo alla Pubblica Amministrazione, in un contesto che è solo corruttivo, ma paga al titolare di poteri di fatto all’interno della Pubblica Amministrazione, poteri che sono correlati al dominio della strada», scrive D’Alessandro. Al momento di discutere del bando del 2013, per la raccolta dei vestiti dei «cassonetti gialli» per conto di Ama Spa, due degli indagati si contattano freneticamente per raggiungere un accordo, da un lato la moglie della cooperativa Sol. Co. e, dall’altro, il presidente del consorzio, Mario Monge: «E’ quest’ultimo a comunicare con Buzzi – scrive il gip – il livello è apicale, e a poter interloquire con il vertice del sistema».

    La prova dell’accordo sarebbe nel fatto che la società di Monge, poco prima di vincere l’appalto sugli ”stracci” ha rinunciato ad un affare centrale per Mafia capitale, la raccolta del multi materiale: «Monge si è precipitato a ritrarsi, consapevole degli amplissimi poteri decisionali di Buzzi, e ha ricevuto, quindi, la ricompensa, ad apertura delle buste compiuta, ma a gara ancora non aggiudicata, dell’assegnazione del bando del rifiuto tessile, anche a Sol. Co.».